“Ascoltami”, di Michela Capone su “ilmiogornale.org”

da: Il mio giornale
Separazioni. Michela Capone con  “Ascoltami” dà voce ai figli
Il mio giornale
24 luglio 2014

Da circa due settimane è disponibile il nuovo libro di Michela Capone, giudice minorile e scrittrice: il saggio“Ascoltami – Le parole dei figli spezzati”, edito da Arkadia e incentrato sui figli di genitori separati. Il libro, il cui ricavato sarà devoluto a ragazzi in difficoltà, è stato presentato lo scorso 16 luglio presso il Tribunale di Cagliari, in un’aula magna affollata, in particolare da ragazzi. All’incontro, abilmente condotto dalla giornalista Manuela Arca, hanno partecipato l’autrice, lo psicologo Bruno Colombo e la dott.ssa Marinella Polo, Presidente del Tribunale per i minorenni di Cagliari.
LA VERITÀ NUDA E CRUDA
Chi conosce Michela Capone sa che non racconta favole ma realtà che conosce personalmente e sa che fa questo senza sconti, senza ingenerare illusioni. Lo suggeriscono, del resto, già i titoli dei suoi libri (“Quando impari ad allacciarti le scarpe”, “Per sempre lasciami”, “Ascoltami”), che richiamano toni quasi perentori, come quelli di chi ha bisogno di aiuto, è insofferente e sta per gettare la spugna. Dopo disabilità e abuso sui minori, la scrittrice-magistrato ha voluto affrontare la questione di quelli che, efficacemente, chiama “figli spezzati”: i figli di genitori separati. Con quale intento? L’ha chiarito bene sia nell’introduzione del saggio che durante la presentazione cagliaritana: «questo non è un testo giuridico», «non ha alcuna finalità scientifica» e «non è un libro sull’ascolto del minore: è un libro che vuole rendere a questi ragazzi una “giustizia sostanziale”, che da magistrato so che non potrò dare.» E per assicurare il massimo rispetto ai bisogni di questi ragazzi, Michela Capone ha scelto di esporli nell’unica forma che potesse garantirne l’autenticità: raccogliendo le loro testimonianze dirette e limitandosi a interventi che sintetizzano, commentano e contestualizzano – anche dal punto di vista normativo – quanto da loro raccontato.

UN GRIDO DI AIUTO
“Ascoltami”: già il titolo del saggio è eloquente e, se non bastasse, le testimonianze dei ragazzi “spezzati” danno inequivocabilmente forma a un corale grido d’aiuto. Per il pubblico di Cagliari è stato forte l’impatto emotivo generato da alcuni brani letti, anzi interpretati, da Agnese Setti e Francesco Porru, adolescenti anche loro. E non meno toccante è la lettura di tutte queste storie: ne emergono, infatti, situazioni e stati d’animo che possiamo anche vagamente immaginare, ma che messi nero su bianco sconvolgono. Il libro racchiude voci che non esprimono solo sofferenza, insofferenza e tristezza(«[…] certe volte penso che mi piacerebbero i bisticci pur di stare insieme» dice Luca, di 15 anni), ma anche rassegnazione o rancore, verso la collettività, verso i fratelli o verso uno o entrambi i genitori. Colpisce molto che alcuni arrivino a preferire di vivere in comunità piuttosto che con i genitori oppure ad affermare che preferirebbero essere adottati o che i genitori fossero morti. Tuttavia, mette in guardia Michela Capone, «mai un figlio desidera un genitore quanto nel momento in cui afferma: “Non lo voglio vedere mai più”». Quelle che popolano le pagine di “Ascoltami” sono anime che magari faticano ad ammettere la loro debolezza, persino il bisogno di versare delle sacrosante lacrime, ma che, d’altro canto, non possono fare a meno di manifestare grandi malesseri, tra cui la convinzione di essere un peso, «una cosa scomoda» come si sente il sedicenne Marco. Sono ragazzi subissati da sensi di colpa per una situazione che credono di aver contribuito a creare («Forse la separazione è successa per colpa mia, […] ho sbagliato e loro devono darmi la possibilità di cambiare», dice Emilia, di soli 11 anni), magari perché di questo convinti dai genitori stessi o da parenti: «Un giorno i miei nonni materni mi hanno accusato di essere stato io la rovina della famiglia», racconta il diciassettenne Nicola; «[…] sarebbe stato meglio che mamma abortisse, nonna ha ragione, lo dice sempre e ha ragione», afferma la quindicenne Alice. E a destare stupore è anche la naturalezza con cui raccontano situazioni e stati d’animo che bambini e ragazzi non dovrebbero mai vivere né provare. Il loro mondo è stravolto e distorto («[…] mi hanno detto che devo parlare della mia famiglia, mi sembra strano: famiglia non ne ho» dice Gloria, 15 anni), il loro percorso di vita forzatamente accelerato. Per questo – racconta Michela Capone nell’introduzione – arrivati nello studio del giudice «lasciano andare un’espressione rassegnata, da adulto che ne ha passate tante».

MA L’ADULTO CHI È?
Ciò che di questo libro più sconcerta, infatti, è che i ragazzi “spezzati” si rivelano in media più maturi dei propri genitori, a causa di quella che, in appendice, lo psichiatra e psicoterapeuta Luigi Cancrini definisce  «silenziosa rivoluzione dei ruoli familiari». Gli esempi rivelatori sono tanti: «Mi piacerebbe dire ai miei che sono come i bambini, perché […] non sanno fare le cose bene e giuste» (Luca, 15 anni); «[…] gli adulti fanno casino, fanno sbagli perché non pensano» (Sofia, 14 anni); «I miei genitori mi fanno un po’ pena […]» (Giuliano, 17 anni); «Lei è una madre e deve fare la madre» (Guido, 14 anni); «Essere genitori non è solo incontrare i figli e dare soldi per loro, è pensare a loro tutti i giorni» (Gloria, 15 anni); «[…] non è che uno un giorno si sveglia e vuole fare il padre: troppo comodo» (Massimo, 14 anni); «[…] mamma […] si piange addosso senza riconoscere i suoi errori» (Elvio, 16 anni); «[…] penso che gli adulti sono scemi. La maggior parte degli adulti si comporta male» (Roberta, 12 anni); «[…] non è matura per fare la madre» (Edoardo, 14 anni); «I grandi fanno casino e chi ci rimette sono i ragazzi» (Marcello, 15 anni). Questa consapevolezza della fallibilità dei “grandi” è già di per sé un trauma, come suggerisce Giuseppe Pontiggia (che fu anche esperto di psicanalisi) nel corso di un’intervista rilasciata nel 2002 a Rossana Dedola: «[…] lo shock più grave che prova l’adolescente penso che sia soprattutto la scoperta che gli adulti non sono tali, che gli adulti sono infantili, che gli adulti mentono e sono preda di passioni meschine». Per egoismo e spinti, appunto, da passioni meschine, i genitori rovesciano sui figli, spesso contagiandoglieli, il loro risentimento, la loro frustrazione e sì, anche la loro stupidità. Emblematica la testimonianza del diciassettenne con due nomi, uno scelto e usato dalla madre (Gianni), l’altro scelto e usato dal padre (Michele).  O quella di Luca, 15 anni, che racconta: «Ieri era il mio compleanno: dalle 13,00 alle 18,00 ho festeggiato con mio padre e dalle 18,00 alle 20,00 con mia madre e mia sorella». O, ancora, ciò che riferiscono Asia di 14 anni, Tiziana di 13 anni, Ludovica di 15 anni e Ginevra di 14 anni: «[…] mia madre diceva che ero un diavolo, come mio padre […]»; «Mia madre non era una brava mamma e per questo il suo latte non usciva bene, nonna ha detto che capita proprio così […]»; «[…] mio padre […] mi ha detto che io e mamma dovevamo battere per guadagnarci il pane […]»; «[…]  mia madre […] Mi aveva detto che io ero stata la cosa più brutta della sua vita […]».

SOLI E SOTTO IL FUOCO INCROCIATO
Ma «il vero trauma – ha spiegato il dott. Colombo – è il conflitto permanente tra i genitori. Un conflitto irrisolto, una rabbia che non è stata elaborata».«La separazione dei genitori per i ragazzi è sempre un lutto. A volte si rendono conto che questa è necessaria e che i rapporti non possono essere falsi: il problema è la cattiva gestione del dopo-separazione» ha spiegato Michela Capone. In proposito, è molto lucido e saggio il diciassettenne Gianmichele: «[…] dopo la separazione i genitori devono riflettere su loro stessi, su quello che si sono fatti, farsi aiutare da qualcuno, per esempio da uno psicologo; i genitori devono parlarsi per decidere sui figli, non basta dire di volere bene ai figli. I miei genitori non hanno avuto la forza di farlo». Davanti al conflitto tra mamma e papà, che assume le sembianze di una vera guerra, «i ragazzi vedono come unica soluzione adattarsi», hanno spiegato il dott. Colombo e la dott.ssa Capone. Alcune volte lo fanno tentando di riavvicinare i genitori, altre volte, per compiacere uno di loro, raccontando a terzi fatti che non corrispondono al vero. Quest’adattamento, in ogni caso, è sempre nocivo e, ha evidenziato lo psicologo, genera «situazioni che creano dei traumi e che pesano per il resto della vita adulta: restano la convinzione di non avere un valore, la mancanza di un’identità, la tendenza a rifiutare per paura di essere rifiutati, la negazione della realtà o disturbi della personalità». Dal loro canto, invece, i genitori «spesso non si adattano alla separazione ed elevano il conflitto, creando una confusione che fa sentire soli e inascoltati i ragazzi» ha rilevato il giudice. Una confusione generata da silenzi di piombo o torrenti di parole al vetriolo. Nel primo caso perché – come rilevato anche dalla dott.ssa Polo – il genitore commette il grave errore di non parlare dell’altro («A casa non nominiamo mamma, è vietato, lo ha detto babbo», racconta il quindicenne Elio). Questo nel «tentativo, a volte riuscito nonostante i provvedimenti giudiziari adottati, di cancellare anche dal mondo affettivo del figlio chi si vorrebbe cancellare dalla propria esistenza», ricorda sempre Marinella Polo nella prefazione. Oppure commettono il grave errore di criticare l’altro genitore davanti al figlio: «Mia madre mi ha seccato: ci incontriamo e mi parla male di mio padre e quando telefono a mio padre lui mi parla male di mia madre», si lamenta la tredicenne Giovanna; «[…] mamma […], ogni volta che devo vedere papà, mi ricorda di pregare perché lui è come il diavolo» rivela l’undicenne Marinella. Concentrati sull’esternazione, anche violenta, del proprio rancore e della propria frustrazione, gli adulti dimenticano di prestare occhi e orecchi a quanto avviene tra le mura delle loro case: «manca l’ascolto da parte dei genitori – ha spiegato Michela Capone – perché il conflitto, purtroppo, sposta l’attenzione dai più deboli, che sono i figli, ad altri contrasti, soprattutto economici». Scioccanti la solitudine, il senso di abbandono, il bisogno di attenzione e comprensione manifestati da Carlo di 12 anni, Nicola di 17 anni, Giorgio di 16 anni, Sofia di 14 anni, Daniele di 16 anni e Riccardo di 15 anni: «[…] vorrei che i miei parlassero di me, almeno ogni tanto. So che è impossibile»; «[…] cerco di parlare con i miei genitori, ma loro pensano ad altro. […] mi ascoltano solo quando parliamo della separazione […]»; «[…] i miei non si sono accorti di quanto sono stato male»; «Non mi è mai capitato che qualcuno mi chiedesse di me. In genere si fa tutto senza sapere quello che voglio»; «[…] mamma mi ha stancato: lei ora è felice, io no»; «Mi devono chiedere più spesso cosa voglio e come mi sento, sono una persona che ha le sue idee: mi devono ascoltare e non bisticciare per mio fratello, io non ho colpa se mio fratello è nato malato».

NEL NOME DEI DIRITTI… DI CHI?
«Viviamo in una società che oggi celebra molto i diritti degli adulti, – ha affermato Michela Capone – nonostante le numerose proclamazioni dei diritti dell’infanzia». Proclamazioni a livello sia nazionale che internazionale, puntualmente elencate dalla dott.ssa Polo nella prefazione, a sottolineare indirettamente quanto le norme possano risultare vuote e inutili se manca la cultura dei valori che sono chiamate a tutelare. Nonostante le svolte legislative, infatti, quali il passaggio dal concetto di “potestà” a “responsabilità genitoriale”, i figli sono ancora concepiti come proprietà dei genitori, come strumenti per la loro piena realizzazione. Ma, ha avvertito il giudice, «non esiste un diritto alla genitorialità: esiste soprattutto un dovere e lo dico prima di tutto a me stessa». Invece, i figli continuano a essere considerati non persone da rispettare e tutelare ma strumenti o, nella migliore delle ipotesi, messaggeri cui affidare richieste di denaro o di altro tipo da riferire all’altro genitore, con cui non si parla o su cui il figlio ha un maggiore ascendente: «[…] le cose che vogliono dirsi le dicono a me, questo mi dà fastidio. Io non c’entro» si sfoga Stella, 14 anni. Assistiamo ancora alla «oggettivazione del minore»in nome del perseguimento dei diritti degli adulti: «I minori vengono collocati da un casa all’altra in nome del diritto del padre o della madre», vengono obbligati a dividere il loro tempo, possibilmente in parti eque, tra entrambi e a funzionare come «interruttori affettivi». Una situazione inaccettabile per chiunque, figuriamoci per dei ragazzi: «Mi vogliono tutti e due, questo lo so, ma io sono un pezzo unico», si sfoga Severino, 17 anni. A pensarci bene, però, abbozzi «di ricatti affettivi e di conflitti di lealtà» possono manifestarsi anche prima e a prescindere da una separazione, scatenati dalla domanda più obbrobriosa che noi adulti siamo in grado di porre ai bambini: “A chi vuoi più bene, a mamma o a papà?”. Un condizionamento affettivo, infatti, è giocato non solo dai genitori ma anche dagli altri parenti e dai conoscenti, come dimostrano chiaramente queste pagine: «da piccolo non volevo andare da papà, mi mettevano cose strane in testa […]», «I miei nonni si mettono in mezzo e mi dicono cose brutte su mamma e sui miei zii», raccontano rispettivamente Aldo (14 anni) e Valentina (12 anni). Tutti, quindi, dobbiamo tenere a mente le parole del sedicenne Marco («Non riesco a dire chi dei due mi piace di più, per me sono veramente uguali») e del diciassettenne Giuliano («Per me i genitori sono uguali e voglio stare con tutti e due.»), tutti dobbiamo sentire come rivolto a noi il monito di Michela Capone: «i ragazzi hanno diritto alla bigenitorialità, che significa avere dentro di loro il padre e la madre».

È comprensibile che – finito un amore, svanito il sogno di una famiglia felice – per il genitore il primo pensiero sia il proprio stato d’animo, la propria condizione di partner deluso, arrabbiato, tradito, sfiduciato… Ma, quando ci sono i figli di mezzo, anche se è tutt’altro che facile, bisogna avere la forza di mettere questi sentimenti in secondo piano e dare priorità al benessere dei propri figli (cosa che, peraltro, un genitore dovrebbe essere sempre pronto a fare). Anche perché «il fallimento di una realtà familiare in cui avevano riposto affetti, ideali e valori» amareggia anche loro, come ricorda nell’introduzione Michela Capone. Solo che loro possiedono meno strumenti, rispetto agli adulti, per elaborare e superare il fallimento: «[…] stavo peggio di lei e lei non s’accorgeva […]», si sfoga il sedicenne Elvio. E ha ragione Flavia (17 anni) a dire che «Nella separazione non si dovrebbe buttare dalla finestra tutto quello che c’è stato prima, ci sono i figli: i figli rimangono». Se questa lucidità e questo altruismo sono rari è perché – ha spiegato il dott. Colombo – «viviamo una trasformazione culturale centrata su un individualismo esasperato dove tutto  il resto viene oggettivizzato»: «la cultura dominante ha messo al centro l’azione e il diritto ad ottenere tutto» per cui «la normalità – che spesso confondiamo con la pazzia – è che si rinunci a pensare, che tutte le emozioni vengano messe in atto». Una tendenza di cui i ragazzi “spezzati” sono consapevoli, come dimostrano diverse loro testimonianze. L’utilità di questo libro, dunque, ha affermato lo psicologo, è data da «il pensiero di Michela Capone che accompagna le testimonianze dei ragazzi e aiuta non a reagire emotivamente, ma a pensare e a ripensare a quelle situazioni». Perché «la separazione può accadere, ma bisogna riflettere», «bisogna costruire una cultura diversa, altrimenti ci scontriamo con sofferenze destinate a perpetuarsi nel tempo».

(Marcella Onnis)


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