Il IV volume della collana Feste e Sagre in Sardegna in allegato con La Nuova Sardegna
29 giugno 2012
Da Alghero alla Barbagia, tutti i colori del Carnevale
A Grazia Deledda, attenta come era agli aspetti del mondo tradizionale isolano, non potevano sfuggire le sfilate del Carnevale. Descrive così, nel romanzo “Elias Portolu”, quella che si teneva nella sua città, Nuoro: «Le vie erano affollate; mascherate barocche e triviali andavano su e giù, tra un nugolo rumoroso di monelli sporchi che urlavano improperi e parole indecenti. Maschere sole, vestite a vivi colori, passavano…». Al Carnevale di Nuoro è dedicato uno dei capitoli del quarto volume della collana “Feste e sagre in Sardegna”, pubblicata dalla “Nuova Sardegna”, che sarà in distribuzione da domani con il giornale (176 pagine, euro 7,90). Il terzo volume, che illustrava le manifestazioni da novembre a gennaio, si era chiuso con una rassegna dei fuochi rituali che si tengono in quest’ultimo mese. Era la giusta introduzione al Carnevale, perché è proprio per la festa di Sant’Antonio abate, il 16 e il 17 gennaio, che in molti paesi fanno la loro prima comparsa le maschere. Il quadro di questo periodo di allegria e di trasgressione è così ricco e variegato che la trattazione (affidata a Michele Pio Ledda per i testi, ad Antonio Meloni per le foto, con la cura dell’editore Arkadia di Cagliari) è stata suddivisa in due volumi: questo quarto ci conduce in quattordici tra paesi e città, il quinto ne toccherà diciotto. Si comincia con Bonorva, paese di poeti e di appassionati della poesia: si chiamava “S’Ischiglia” la rivista a loro dedicata nel secolo scorso da Angelo Dettori; e si chiama “Cursa a s’ischiglia” la manifestazione più attesa. Prende il nome dalla campanella (“ischiglia”, appunto) che viene fissata al collo dei cavalli, e sottolinea così col suo suono argentino il galoppo dei cavalieri verso il bersaglio da infilzare con una corta spada. I cavalli corrono anche ad Alghero, che sta mettendo a punto, anche a scopi turistici, una sua interpretazione del Carnevale; ma oltre ai cavalli veri e propri i bambini ne usano, per mimare una loro corsa, altri molto belli rappresentati da una testa in legno. Sembrano invece del tutto autoctone, proprie di una città ironica e scanzonata, le origini del Carnevale di Bosa. Lo spettatore rimane allibito il giorno culminante, martedì grasso, nel vedere come cambia la scena, lungo le strade cittadine. La mattina le maschere sono vestite di nero, piangono per la fine della festa e si rivolgono ai presenti col pretesto di chiedere «unu ticchiriccheddu de latte», un goccio di latte. Come scende la sera i protagonisti compaiono invece vestiti di bianco, e con una piccola luce vanno a caccia dell’eroe della festa, “Giolzi”; e lo cercano addosso alle persone, con chiare allusioni all’identità sessuale. C’è ancora una puntata a San Vero Milis, dove il cavallo è protagonista in una corsa all’anello (“sa loriga”) e nelle successive acrobazie delle pariglie. Poi, passando per Borore, dove i cavalieri si affannano ad acchiappare “sa pudda”, una gallina (oggi fortunatamente di stoffa), si va verso la Barbagia. Qui il cavallo scompare, e sono gli uomini, in più di un caso – come a Ottana e a Orotelli –, a interpretare la parte delle bestie.
(Salvatore Tola)