Sa resolza, protesi indispensabile
La Nuova Sardegna
04.06.2010
Michelangelo Pira ha scritto che «sa resolza», il coltello a serramanico, era così importante per l’uomo di campagna sardo che poteva essere definito un prolungamento della sua mano. E un antico proverbio conferma: «Chenza rosariu in cresia poisi andai, chenza leppa in su sattu non poisi stai»: «Puoi anche andare in chiesa senza rosario, ma non puoi stare nel salto senza coltello». Questo strumento è stato sempre così importante che doveva necessariamente trovare il suo spazio all’interno della collana dedicata dalla «Nuova» agli «Antichi mestieri e saperi della Sardegna»; e questo avviene nell’ottavo volume, dedicato a «Miniere, metalli e metallurgia» (144 pagine, euro 7,90, in vendita da domani col giornale). La terza sezione si intitola infatti «Per lavoro e per difesa: dai coltelli alle armi», e si apre col capitolo dedicato da Pierluigi Piludu alle «due armi che sono tipiche ed esclusive della cultura militare sarda», la «virga sardesca» e il «verrutto»: adatte entrambe, più che a scontri in campo aperto, alle imboscate e alle forme di guerriglia preferite dai contingenti isolani. Un artigiano di Domusnovas ne ha realizzato da poco alcune riproduzioni di esemplari rinvenuti a Geridu, il villaggio medioevale che sorgeva tra Sassari e Sorso. Il discorso passa poi, nel capitolo scritto da Alberto Soi, alla «leppa», che era in origine un grosso coltello da fendente, a lama fissa. La sua lunghezza complessiva variava dai 50 ai 70 centimetri, ma già le disposizioni di legge del Medioevo, e poi altre venute in seguito, tendevano a limitare la lunghezza della lama. Per un verso queste norme, per l’altro l’introduzione del sistema a serramanico hanno condotto gli artigiani a concepire il coltello da tasca in uso tra i sardi in tempi più recenti. Noto ancora come «leppa» oppure come «rersolza», prende il nome anche, sempre al femminile, dal luogo di produzione. Più celebre tra tutte la «pattadesa», da Pattada, dove sono ancora in attività abilissimi produttori. È stata la prima ad avere diffusione per l’intera isola e anche fuori, tanto che se ne faceva una mediocre imitazione in una paese della Toscana. La prima sezione del volume, che si apre con l’introduzione di Barbara Fois, è firmata da Caterina Lilliu e si sofferma sull’uso dei metalli nelle epoche più antiche, in particolare sui bronzetti nuragici. La seconda è dedicata alle attività minerarie che hanno interessato l’isola, anche con lunghe interruzioni, nel corso del tempo, e comprende una bella serie di foto d’epoca di uomini e donne al lavoro nei pozzi e con i minerali. Alla terza sezione, riservata come detto ai coltelli e alle armi, ne seguono ancora due: una si occupa dei fabbri, i maniscalchi e gli artigiani del rame; l’altra della lavorazione del vetro, che ha in comune con i metalli – spiega Barbara Fois – il silicio, importante componente dell’acciaio. Gli autori sono, oltre a quelli già citati, Maria Grazia Arru, Carla Cabras, Fabrizio Fenu, Anna Lecca, Giulio Paulis, Paola Pellegrino, Maria Giovanna Rosso, Felice Tiragallo. Il materiale fotografico proviene, oltre che dall’archivio dell’editrice Arkadia, da quelli di Gian Carlo Deidda e di Alberto Soi e dall’archivio storico di Iglesias. – Salvatore Tola