“Lancillotto 28°-7°” su Mork Mindy Ork
Viaggio da Lanzarote alla Corsica: storie di cavalieri e mozzi in cerca del loro altrove
Cosa può fare la Letteratura in un tempo in cui la realtà, spesso manipolata dalle alte sfere, pare non offrire più alcuna via di uscita? Può essa costituire un’isola felice, un rifugio, o non sarebbe, piuttosto, il caso essa offrisse quell’angolo visionario da cui trarre forza per continuare a credere di potere dare alla realtà una forma immaginata e conforme a un piano dei desideri? Trattasi, quest’ultimo, di quello strato dentro cui si perdono le mancanze e i bisogni più profondi di chi sceglie di votarsi alla logica dell’immediato soddisfacimento di mancanze e bisogni più superficiali e più facilmente realizzabili dal sistema che tiene al guinzaglio le innumerevoli potenziali teste pensanti. Esiste un modo per sovvertire lo stato delle cose ed esso coincide con il non rinunciare ad essere teste pensanti. La Letteratura è, a ben guardare, un potente strumento in questa direzione, anche laddove non sia esplicitamente uno scritto dal sapore politico. Allora, qui, come piace fare a noi, partiamo dall’irrisolto, per prevalente logica dell’intero, per viaggiare, scegliendo di fare entrare, nello spazio del nostro pianeta, un elemento spesso imprescindibile della narrazione, eppure in sé potenzialmente irrisolto, quel paesaggio che, tanto caro ad alcuni scrittori, può essere solo un paesaggio o molto di più o, forse, nell’istante in cui è solo il paesaggio, qualcosa di talmente dirompente da potere stravolgere lo sguardo verso l’orizzonte. Questo perché, condizionati da ciò che il nostro sguardo include, per merito della parola di chi scrive, potremmo imparare a concepire diversamente, rispetto al pensiero imposto, il nostro domani. Chissà. Lavoro estremamente sottile, che necessita per svolgersi di un sostrato adeguato, di quelle nicchie dentro cui ci intrufoliamo volentieri. E di libri, dunque. Quelli che oggi ci aiutano a compierlo, il lavoro e ancora prima il viaggio, libri che sanno di posti lontani e vicini, di epica e forza immaginativa, di ciò che è a un passo da noi, ma che di noi racchiude anche l’altrove possibile.
Diventa, in qualche modo, un altrove, Lanzarote in un omaggio all’isola che si vorrebbe imporre esclusivamente come una guida integrale, ma che è molto di più, nell’atto in cui il potere della Letteratura travalica l’esistente talvolta anche per connotarlo, restituendogli un passato, un intreccio di vicende, dei personaggi e tutto ciò che occorre perché la Storia non passi senza lasciare memoria su di esso. È l’insolito omaggio all’isola natia che compie Agustin Espinosa in un recente titolo edito da Arkadia, nella serie Xaimaca, traduzione di Alessandro Gianetti: “Lancillotto 28°-7°”. Lo scrittore, nato sul finire dell’800, appartenente al filone surrealista e poco conosciuto nel nostro Paese, ci offre lo spunto ideale di partenza per l’approccio al discorso da cui abbiamo scelto di compiere questa peculiare navigazione che avrà un approdo nel nostro Paese in città dominate dal mare passando per la Corsica e, forse, anche da certe piccole realtà di provincia che, come Bologna nello sguardo di Luca Carboni, sono densamente popolate di quella giallognola malinconia dietro cui si annidano le nostre fragili resistenze a un tempo che si impone con la sua arroganza, avanzando veloce verso una fine collettiva. In un breve accenno introduttivo morfologico, Espinosa ce la racconta brevemente: l’isola più orientale dell’arcipelago delle Canarie, ricorda un cavalluccio marino che salta un ostacolo o, meglio, prossimo a saltare l’ostacolo blu che lo separa dall’Africa, in un delicato gioco di equilibri e attrazioni che gli impongono una necessità identitaria per sfuggire all’ingordigia africana. Sarebbe un punto nel nulla di fronte al resto intorno, che sia il mare o l’imponenza del continente africano, se non fosse per l’opera che lo scrittore spagnolo sceglie di dedicare ad essa, raccordando al suo smarrimento un processo di costruzione di identità che non può assolutamente prescindere dalla Letteratura, da uno sguardo epico, da una memoria che, anche se fittizia, ha la forza di una visione, nasce dal congiungere fatti, personaggi e storie a luoghi differenti da quelli per cui in origine sono stati concepiti e non per questo perde il ruolo di essere il sostrato insostituibile del nostro presente. Perché la Letteratura ha la forza di generare mondi, di dare sostanza e credibilità a ciò che la mente esclusivamente razionale e scientifica non riuscirebbe non solo a tenere in piedi, ma neanche ad accogliere nell’universo delle infinite possibilità.
In fondo, ce lo dice chiaramente l’autore: “La letteratura deve imporre il proprio ritmo vivo alla terra inedita. Non è stato altrimenti che il mondo ha visto per secoli l’India creata da Camoens o la Grecia di Omero, la Roma di Virgilio, l’America di Ercilla o la Spagna che inventarono i nostri romanzi antichi. Una terra senza una forte tradizione, senza un’atmosfera poetica, soffre la minaccia di un fatale offuscamento”. Questo spiega abbondantemente l’urgenza della creazione di un mondo poetico, di una mitologia trainante che abbiano il potere di dare alla vita una Lanzarote diversa, non più destinata a non passare al setaccio della memoria, ma qualcosa che resta, in cui sir Lancillotto possa muoversi liberamente, entro i margini che ne segnano la fine storica e geografica, possa confondere i piani, generare quella confusione dentro cui può farsi strada un immaginario, una nuova storia, una geografia integrale di Lanzarote, come la chiama Espinosa. Isola di penitenza, ma anche isola di ritiro, in cui rivedere il passato, “il suo nordico innamoramento”, “il suo tristanismo dei vent’anni”. Per merito di Lancillotto, l’isola si riempie di castelli britannici e labirinti sotterranei, diventa il palcoscenico epico di un imponente apparato cavalleresco, luogo di elezione in cui leggere Omero, Lucano, Apollonio Rodio, in cui portare l’epica nell’epica dimenticando il nulla a cui la confinerebbe la realtà sterile, incrementando il potere visionario, omerizzando, mediterraneizzando l’esistente fondato già su una finzione, la bugia necessaria alla sopravvivenza dell’isola. Non solo luogo di memorie, non solo stimolo alla rievocazione di antiche gesta, ma anche testimonianza dell’ultimo scorcio di vita di Lancillotto, delle sue abitudini e dei suoi diversivi, oltre che suo approdo finale nell’ubicazione di un sepolcro da omaggiare. Espinosa non si accontenta di percorrere esclusivamente questa via, mescola le carte e le confonde, ancora una volta: così c’è anche spazio per il cammello di Lanzarote, cammello con aratro, attore dalla grazia triste, dall’arte incompresa, cammello per pochi, c’è spazio per la geometria orizzontale e bianca di Nazareth, composta di parallelepipedi terrestri che si specchiano nei prismi generati dalle nuvole basse nel cielo che la sovrasta e dove aria e cielo restituiscono la densità e l’esistenza delle cose, c’è spazio per Mozaga che, in un gioco di dadi e destini, complice il vento, si allontana o si avvicina rispetto alla sorella Nazareth, in un equilibrio deciso dal fato più o meno propizio e dalla direzione che assume l’idea di liberazione. E, poi, c’è il vento, grande cacciatore di retorica, vento instabile per definizione che attraversa il deserto del Sahara e l’Egitto delle piramidi, nel tentativo di assecondare la sua anima eroica, e che rappresenta esso stesso un eroe, un eroe marino, ma non come Odisseo specificamente marino, un eroe dall’eroismo spezzato in terra che, interrotto nel suo affacciarsi intrepido alle cose, rompe i tempi classici, tarda l’arrivo a destinazione e se ne serve per cogliere la forza dell’attimo nell’esercizio del presente che si dipana nella sua certezza, l’unica, che abbia in sé un tremito, di cui si possa godere. E, così come c’è il vento, c’è anche la palma che, col vento di Lanzarote, diventa giostra, mulino, roulette, diventa le infinite possibilità di ciò che potrebbe essere per assimilazione o invidia, ma non è, se non con la complicità di un eroe fondamentale dell’isola. Allora, accade che il mulino, segno d’Occidente, vada a congiungersi con la palma, segno d’Oriente, preannunciando, quando ci si muova nei pressi di Tinajo, ciò che sarà la mostra bizantina di quel luogo, non solo con la chiesa, il sacerdote, la casa cupolare e i camini, ma anche nell’immaginario che lo sovrasta, perché le fonti per potenziarne la visione non saranno più Correggio o Rousseau, ma tutto ciò che è ad est, mentre la storia si tingerà degli umori russi, rievocando le gesta di cavalieri russi nel galoppo dinamico di un giovane monaco tuttofare a presidio della chiesa, destinato a scendere da cavallo per indossare le vesti ufficiali del pope. Ai piedi della montagna di Guanapay c’è Teguise, accostato all’immagine di un angelo custode, un paese, piccolo, ma vivace, pieno di donne dalla camminata da giaguaro e dallo sguardo da spose di un film yankee, paese di nascita dell’autore di “El Pensator”, quel Clavijo y Fajardo, che dovette imparare dal luogo una fiducia nel destino che nessuno è in grado di trasmettere, congiungendo in maniera maldestra e disonorevole per la malcapitata le vicende spagnole a quelle francesi in un turbinio di vortici amorosi inconcludenti. E non finisce qui il percorso narrativo che si avvale anche di ulteriori contributi: della partecipazione del soleggiato pozzo di Lanzarote, dell’ordine classificatorio degli ospiti di Puerto de Naos, di quello che Espinosa definisce “un pezzo di blu rubato all’Oceano”, il lago di Janubio, col suo variegato popolo di pesci, le sue paludi salmastre, i suoi uccelli bianchi che lì fanno regolare tappa, le sue saline in cerca, senza esito finale, di una forma non ancora inventata che le rappresenti davvero, esattamente come le donne, saline tanto bianche da potere essere dolci in un latte cristallino e tanto audaci da generare un paesaggio innevato, da confondere i piani, l’orientamento, la navigazione, latrici di un sale da pescare con le canne esposte alla luce della luna. C’è, infine, spazio per Arrecife, paese con la paura del mare, condannato dall’Oceano in uno spavento perenne, quasi non vi fosse altra scelta, se non l’abdicazione di ogni forma esistenziale di fronte alla precarietà che si affaccia prepotente, salvo l’accettazione della medesima come compagna indispensabile di un percorso che è contaminazione di opposti, come d’altronde l’intera isola insegna, tanto nella sua morfologia fisica quanto nella sovrastruttura epica, mitologica, immaginaria sapientemente realizzata su di essa da Espinosa. Il libro, edito da Arkadia, ci restituisce un’altra isola, un’altra Lanzarote, quell’angolo dell’immaginario che, sostenuto dal mondo letterario, genera una terza via, quella che il lettore ha il potere di costruire, quella che ancora non esiste, un orizzonte ai confini imposti, più o meno esplicitamente, dalle politiche e dall’agire umano nel quotidiano di questo tempo. Fa qualcosa di simile, ma addentrandosi in piani più intimi, senza volerlo dichiarare a chiare note, in una ritrosia da uomo di mare, seppure “valligiano” di nascita, che rifugge i fini esperimenti dell’altro, Marino Magliani in un omaggio, edito da Oligo, alla condizione di viandante instabile perennemente in cerca, fuori dai luoghi cari allo scrittore ligure, ma solo per il tempo di un viaggio, quello che il mozzo compie per pochi mesi, in un percorso di andata e ritorno che si susseguono senza mai sovrapporsi, da e per la Corsica. L’opportunità di un guadagno da studente, un fatto di lavoro come tanti, un imbarco per la Corsica Ferries e l’occasione di vedere finalmente il mare per colui che è abituato a una quota di fondovalle che ignora il mare, che il mare non lo vede, ma neanche lo sogna, ma che, se gli si rivela quale altrove o quale transito verso un altrove, diventa il viaggio per eccellenza, quello dopo il quale tornerà, ma non potrà dirsi più lo stesso. Perché se il luogo da cui origina il viaggio porta tendenzialmente con sé la matrice di un necessario immobilismo, il mare è il movimento verso un altrove. Che sia la Corsica o un altro luogo, anche metafisico, poco importa. E, in fondo, questo è l’altro punto che distingue i nostri libri: Lanzarote è terra natia, è luogo destinato al fermo immagine, se non ci fosse lo spirito creativo di Espinosa che magicamente, in un lavoro di surreale cesello narrativo, ne stimola il divenire in un altrove che congiunge il piano letterario con le benedette nevrosi da mancanza dello scrittore spagnolo, mentre la Corsica è solo la Corsica, un fantasmico traguardo che racchiude tutti i sogni di chi deve ancora partire per la grande avventura, quella della vita, traducendosi nello specchio dei desideri di chi dal traghetto immagina un altro tempo possibile, anche solo per la concessione di un pezzo d’estate. Così, tra il punto di partenza, Genova, vista dal mare, ma non ancora dal largo, come una scala gialla e grigia di case e terrazze, finestre verdi, e la Corsica, dalle alture dolci, non incombenti sulla città, l’immagine di una penisola perfetta, costituita di fatto solo dal muro alto del molo di Bastia, esiste il viaggio che nel punto di osservazione privilegiato del mozzo racconta molto, quasi tutto: lo svolgersi delle fatiche e delle miserie umane, delle speranze poco oltre l’approdo, ma anche la regolamentazione di un passaggio, di un transito necessario verso un altrove, attraverso la normazione, il processo con cui ci illudiamo di portare ordine nel caos dell’esistenza, confondendo spesso l’urgenza della norma, per non cadere nella barbarie, con la sua estensione applicativa, a mo’ di salvagente dalle tempeste destinate ad abbattersi sulla nostra imbarcazione. Il mozzo impara, sbaglia, si adatta, si conforma alle regole quel tanto che basta per incominciare a comprendere che sapore avrà la grande avventura che ancora lo attende, approssimandosi a connotare la libertà non come una fuga, ma riconoscendola in quel punto dell’orizzonte in cui si è giunti a destinazione, ma solo per ripartire ancora, che sia per tornare a Genova o un altro viaggio ha poca importanza. Cinque mesi di lavoro, oltre 150 viaggi in Corsica e l’isola paradossalmente, ma neanche tanto, un non luogo: la piazza-scalo, con la sua darsena, le sue barche, le gru, un aspetto mediterraneo. In fondo, un’isola come tante, anche nello sguardo fugace che il mozzo, curioso dello svolgersi dei ritmi della terraferma, le concede in una rapida tregua tra l’approdo e l’imminente partenza. A darle identità, anche solo nella contrapposizione, sono i desideri, lo sconforto, di chi è prossimo a salpare, a dare un’identità all’isola, è lo spettacolo del firmamento destinato a colmare il vuoto di chi, come molti, non ha ancora trovato ciò che cerca, neanche in Corsica, è la vita che pullula sulla nave, la pelle abbronzata delle turiste nordiche, l’uniforme di aspirante marinaio del giovane mozzo, la vita che si affaccia tra regole e falsi traguardi, il rumore dei motori dentro la cabina, il cigolio del traghetto, quasi un animale alle catene, lo sguardo sull’isola che, a distanza di poche ore, cambia, perché cambiano i passeggeri e i loro desideri, i loro sogni e le loro attese, nella regolarità di certi errori che il mozzo sa di potersi ancora concedere. Perché, oltre la Corsica, c’è ancora la vita ad attenderlo, ad attendere il mozzo, quel carico ancora in divenire che non ammette cedimenti alla malinconia e concede l’osservazione delle vite altrui senza il patimento di una compassione che l’età è destinata a riservarci. “Le Corsiche”, ci dice Magliani, “sono sempre state tante”, perché basterebbe “una condizione meteorologica diversa, una quota diversa, un’angolatura, un punto diverso della Liguria da cui cercare l’isola”. Forse, non diversamente da altri luoghi, ma con la complicità del mare che separa alcuni di essi dalla terraferma fino a renderli ideali catalizzatori di fumose e astrali dimensioni cariche di ciò che a terra non trova spazio. Il finale racconta il viaggio possibile del mozzo sull’isola, il viaggio mai compiuto, un’epica del racconto nel racconto che, come in Espinosa, colma una lacuna forse solo apparente, nell’istante in cui i luoghi sono anche la nostra memoria, nel cui funzionamento un ruolo determinante gioca la Letteratura quale stimolo alla sovversione della staticità del passato. La memoria può smuoverlo, quel passato, e la Letteratura può essere manifestazione dell’inaspettato movimento tellurico che potenzia, genera, amplia l’orizzonte, ben oltre la Corsica. Lo dice bene con la sua scrittura anche un regista mai ricordato abbastanza, come Carlo Mazzacurati, o un autore straordinario come Francesco Biamonti: l’uno, a Nord-est, l’altro a Nord-ovest, hanno saputo raccontare il senso del viaggio, la ricerca di un altrove, il primo più spesso nella direzione della meta, il secondo prevalentemente nello sguardo di chi rimane. Eppure tutti tradiscono il bisogno di una ricerca, un’inadeguatezza di partenza che è la benedizione di essere ufficialmente viandanti in una storia che lambiamo a tratti, il tempo necessario di accorgerci delle acque in cui stiamo navigando. Fragili creature di un mondo non sempre ospitale, cerchiamo tutti la nostra Corsica o di tornare in una rinnovata Lanzarote.
Mindy
La recensione su Mork Mindy Ork