I giorni pari
8 dicembre 1940
I preparativi fervevano da alcuni giorni.
Quella domenica pomeriggio, festa dell’Immacolata Concezione, Roma pareva dormire distesa lungo gli argini del Tevere. Il giorno prima aveva lasciato l’amaro in bocca a mia madre Miriam che non si dava pace.
«Che sia maledetto il sabato fascista.»
Mio padre, incollato alla radio tenuta a basso volume, seguiva la partita Lazio-Torino, non sembrava prestare attenzione alle parole di Miriam, ma all’improvviso si alzò dalla sedia, andò da lei e se l’abbracciò stretta.
«Vedrai, si aggiusta tutto. Facciamo passare la buriana. Intanto sistemiamo Sara al sicuro. Noi staremo bene cara vedrai, vedrai.»
Se la cullava come fosse una bambina imbronciata.
«Dio conta le lacrime delle donne.»
«E allora che le contasse per bene perché le ho finite.»
Abitavamo al Ghetto, in via Santa Maria del Pianto. Mi venne da ridere. Un grande appartamento sito in una via dal nome perfetto per le nostre sofferenze. Fino a qualche anno prima saremmo stati ancora abbastanza ricchi per andare a vivere più in là del fiume, nei quartieri dove non arriva l’odore di zucchero caramellato, ma mio padre era così attaccato a quella casa che non l’avrebbe lasciata mai.
«Ebreo arianizzato!»
Quelle due parole pronunciate da Miriam si affondarono, come un coltello affilato, nella gola di mio padre che parve soffocare. Si fece piccolo, piccolo, la schiena incurvata, tornò alla sedia mentre la radio gracchiava la vittoria del Torino.