“Cantico dell’abisso” su Senza Linea
Ariase Barretta, nessun corpo è sbagliato
Nato a Napoli, si è laureato all’Istituto Orientale per poi proseguire gli studi presso le Università di Modena, Barcellona e Madrid, dove ha conseguito un Dottorato in Letteratura ispano-americana. Nel 2009 ha vinto il Premio Letterario “La voce dei sogni” a cui ha fatto seguito la pubblicazione di Litany. Successivamente ha pubblicato i romanzi Darkene (2012), Psicosintesi della forma insetto (2014), H dalle sette piaghe (2015), premiato come miglior noir al Festival “Giallo al centro” di Rieti, e Living Fleshlight (2018), tutti editi da Meridiano Zero. Nel 2018 ha fondato, insieme alla performer Manuela Maroli, il duo di Letteratura performativa Sacrificium Viduae, con cui ha realizzato le opere Luce di carne viva e Le lacrime di Venere. Attualmente si occupa di Queer Art e Transmodernismo, con particolare riferimento all’opera dell’artista e scrittore cileno Pedro Lemebel. Il suo ultimo romanzo, Cantico dell’abisso per Arkadia Editori, tratta di un abisso profondo, nero, apparentemente insuperabile. È l’abisso della paura che diventa normalità.
Chi è Ariase Barretta?
Non lo so. Non ho mai incontrato Ariase, è una entità che si manifesta a tratti. Tra le mie molteplici personalità c’è anche questo signore. Non mi conosco e ne sono contento perché quando ti conosci troppo arrivi a proteggerti ed eviti di sperimentare determinate situazioni. So dove mi trovo, quello sì! Mi riferisco alla mia ubicazione geografica, in senso logistico: per esempio oggi sono a Bologna ma mi muovo continuamente tra Napoli, Madrid e Bologna. In aeroporto hanno pensato di dedicarmi un gate con una targa con il mio nome.
E per quanto riguarda il percorso della tua carriera, in che punto ti trovi?
Posso risponderti che ho la sensazione di essere sempre a zero. Nonostante abbia fatto tante cose nei mie 50 anni, e mi riferisco agli studi, ai libri pubblicati, quelli tradotti e ai progetti culturali, io continuo a concentrarmi sulle cose da fare più che su quelle già fatte. Per esempio, a fine Maggio esce in Spagna il mio saggio di critica letteraria sullo scrittore cileno Pedro Lemebel, e per fine anno uscirà anche in Italia. Per la prima volta mi autotraduco, il saggio è nato in spagnolo perché è parte della mia tesi di dottorato. Nel 2025 uscirà un altro saggio su una tematica completamente diversa. Sono contento dei miei progetti futuri.
Parlando di traduzione, hai trovato qualche differenza tra tradurre ed autotradursi?
Autotradursi è molto più difficile. Quando traduci un altro autore, senti la responsabilità verso quella persona e ciò ha un certo peso. Quando traduci te stesso, in questo senso sei più sereno perché non tradisci te stesso, sai cosa hai scritto. Tuttavia, la difficoltà è dettata dal fatto che ragioni costantemente in due lingue diverse. In questo caso io ho scritto il libro nella mia terza lingua, lo spagnolo, e non nella mia lingua madre, il napoletano. Per me l’italiano è una seconda lingua perché l’ho imparato a scuola; in casa mia si parlava il napoletano, ed io il napoletano lo parlo e lo scrivo, quindi per me è la mia lingua madre. Detto questo, immagina l’arzigogolo mentale in cui mi muovo, tra un po’ il mio cervello andrà in fumo… ho scritto il libro nella mia terza lingua, lo spagnolo; l’ho tradotto all’italiano, la mia seconda lingua e in questi passaggi ho dovuto fare molta attenzione alle interferenze linguistiche.
I tuoi libri spaziano dal genere distopico, al noir, alle tematiche LGTB+ e alla fantascienza…
C’è un po’ di tutto. Per esempio “Litany” è un romanzo lirico, un po’ fiaba dark, gotica con una componente alchemica e dei miei libri è un caso a parte, non ho più scritto nulla di simile. Poi c’è la trilogia ambientata a Napoli “Darkene”, “Psicosintesi della forma insetto” e “H dalle sette piaghe”. Darkene fu definito da Sergio Pent sul Corriere della Sera un romanzo di iperrealismo sociale. Gli altri sono stati poi etichettati come psico noir e, in effetti, “H dalle sette piaghe” ha vinto un premo in un festival noir a Rieti. Io non mi sono mai posto il problema del genere a cui aderire. Il romanzo successivo, “Living Fleshlight”, però, è a tutti gli effetti un romanzo di fantascienza distopica. Mentre “Cantico dell’Abisso” inaugura una trilogia di romanzi ambientati a Bologna. Ha vinto anche un premio di cui vado molto fiero: il Premio DEI (Diversità, Equità e Inclusione), assegnato ogni anno a Perugia. Tratta il tema del transgenderismo, se proprio vogliamo etichettarlo. Ma in realtà ha tante implicazioni psicologiche diverse. Parla della famiglia, dell’ipocrisia, ed è ambientato nella Bologna bene degli anni 80.
Cantico dell’Abisso è considerato un libro sincero e duro come un pugno nello stomaco…
Certo, perché in questo libro si parla di ipocrisia. L’ipocrisia di costruire una facciata che vada bene a tutti. È stato complicato pubblicarlo, così come lo era stato per Living Fleshlight, in cui si parla di una tematica molto forte,ossia l’abuso nei confronti delle donne, donne trasformate in bambole. In “Cantico dell’Abisso” io racconto la storia di un ragazzino che ha 13 anni, nel 1987, che oltre ad avere un’espressione di genere non conforme al sesso che gli è stato attribuito alla nascita – non si sente né uomo né donna, è un soggetto Gender fluid – è anche innamorato di suo padre. Questo amore poi verrà anche vissuto fisicamente. Possiamo dire che è una situazione scabrosa ma non irreale, queste cose avvengono continuamente e questo romanzo, in effetti, è basato su fatti reali. A ogni modo, il vero personaggio negativo di questa famiglia è la madre perché accetta questa situazione per sua convenienza a discapito di tutti coloro che la circondano. Una madre che insieme alla sua amante, ex suora, è capace di atti di puro sadismo. Molte persone, dopo averlo letto, mi hanno detto che una storia del genere non può essere vera, eppure lo è! È reale!
Living Fleshlight, un libro di fantascienza distopica, dove si parla di abuso sulle donne e Cantico dell’Abisso che tocca la tematica del transgenderismo. Due temi in auge ma con una accettazione diversa da parte della società. Credi che ci vorrà ancora del tempo per poter normalizzare la situazione relativa all’espressione di genere in Italia e arrivare a sentirsi veramente liberi?
Penso di sì. Tieni in conto che non solo le case editrici hanno storto il naso di fronte a queste opere – anche in maniera molto violenta – ho ricevuto pesanti critiche anche da parte della stampa. Persone che non hanno voluto nemmeno parlare del libro e che poi in privato mi hanno attaccato perché secondo loro, si tratterebbe di un romanzo “scorretto”. La differenza tra i due libri è che Living Fleshlight ha una componente metaforica, il tutto viene raccontato attraverso una realtà che non esiste, anche se quando parlo di queste donne fatte a pezzi, in realtà sto parlando delle donne reali. Purtroppo, l’idea di fare a pezzi il corpo delle donne e darlo in pasto alla gente è una norma nell’ambito della comunicazione, soprattutto quella pubblicitaria. In “Cantico dell’Abisso”, invece, si rompe un tabù. Agli italiani si può toccare qualsiasi cosa tranne la sacralità della famiglia. La famiglia è l’archetipo su cui si fonda un certo tipo di società. Toccare la famiglia significa rompere un tabù molto forte e per l’italiano medio diventa destabilizzante vedere attaccata una sua certezza. Bisognerebbe iniziare ad accettare che la famiglia non è sempre un luogo di protezione, anzi, spesso è un luogo di distruzione. Personalmente credo più nei rapporti che non sono quelli di sangue perché le persone le scegli in base alle tue affinità. Il rapporto di sangue non lo scegli, ti viene imposto dalle circostanze e dalla natura. Il protagonista del libro, per esempio, a un certo punto incontra una ragazza che si prostituisce insieme a lui e che diventa la sua nuova famiglia.
E tu che rapporto hai avuto con la tua famiglia? Quanto c’è di autobiografico in questo libro?
Ho avuto un rapporto meraviglioso, sono stato fortunatissimo. La mia famiglia io l’avrei scelta. I miei genitori mi hanno dato il massimo dell’amore che si possa dare a un figlio. Mio padre c’è ancora, ha 91 anni ed è ancora meraviglioso; mia madre non c’è più, ma anche lei mi adorava. Leggeva tutti i miei libri, non le piacevano, era il mio peggior critico e diceva che nei miei romanzi c’era troppo sesso e troppa violenza. In “Cantico dell’Abisso”ci sono alcune cose che posso definire autobiografiche: io mi considero un individuo agender, nella misura in cui considero i generi costrutti sociali, convenzioni che rifiuto, quindi non mi sento né uomo né donna, mi sento Ariase Barretta. C’è un altro elemento autobiografico: il fatto che io abbia sempre adorato mio padre. Sì, forse questo complesso di Elettra, di innamoramento nei confronti del padre, potrei dirti che è autobiografico. Per me mio padre è l’uomo più bello del mondo. A parte questo e qualche piccolo episodio, per fortuna di mio non c’è altro.
Visto che la società sembrerebbe non ancora pronta per questi temi, date le critiche, non pensi che quello che scrivi possa limitare la tua carriera di scrittore?
Non riesco a valutarmi come scrittore però, con assoluta certezza, so che per il mio successo sarebbe molto più semplice scrivere su altre cose e andare più facilmente incontro ai gusti dei lettori e alle richieste degli editori. Tuttavia, io sono contento così: non voglio essere più ricco o più famoso di quello che sono. Voglio solo essere Ariase Barretta, amato da quel numero circoscritto di persone che per me contano qualcosa.
Cosa vuoi dire ai tuoi lettori?
Voglio dire loro di non fidarsi del conformismo perché nasconde meccanismi crudeli, perversi e distruttivi. Mi riferisco al conformismo sociale, ma anche a quello letterario, anzi pseudo-letterario, che è l’antitesi della letteratura.
Grazia Giordano
Il link all’intervista su Senza Linea: https://tinyurl.com/5x4rxu7d