Il babbo di Pinocchio
Che poi, sì, certe cose non capitano per caso e un po’ siamo noi a farle capitare, un po’ è questa città, però si può discutere sul fatto che a quel punto fosse già successo qualcosa.
In realtà c’era solo questa sera di agosto, questa città piena di turisti, questa panchina dove attendere un primo alito dopo la canicola. Due uomini senza programmi, certamente senza fretta.
E sì, ti immagino ad aggrottare la fronte, a scuotere la testa. Mai dare confidenza agli sconosciuti, a scanso di brutte sorprese. Ma che dirti, non stavo scialando in confidenza. E la persona al mio fianco aveva un’aria decisamente rassicurante. Con quel completo marrone addosso mi pareva lo zio anziano che in famiglia reputano la pecora nera, mai sposato ma forse con qualche figlio disseminato in giro: lo zio più amato dai nipotini.
In qualche punto del passato doveva aver smesso di rincorrere i tempi e ora i tempi l’avevano discretamente superato, senza provocare particolari crucci.
Considerai il suo completo color avana, gli occhiali tondi senza montatura, il fazzoletto ripiegato con cura nel taschino della giacca. Per non dire dei baffi candidi, del pizzetto senza un pelo fuori posto. E l’acqua di colonia che
si era spruzzato addosso, proprio come faceva, ricordo, zio Mario, che in realtà non era nemmeno zio, solo l’ultimo
parente restituito da un’altra epoca. Anche lui uomo di altri tempi.
Ce ne restammo così per un pezzetto. Sfilarono una coppia di biondi stranieri avvinghiati in un abbraccio, tre o quattro ragazzetti che bevevano dalla stessa bottiglia di vino, quindi una donna in ciabatte che insultava il suo barboncino, strattonandolo per il guinzaglio. Cinema Firenze all’ora del tramonto.
Quasi una trincea la rastrelliera delle biciclette davanti a noi. Rafforzava la sensazione di essere spettatori senza altra pretesa se non di rimanere seduti. In qualche modo avevamo pagato il biglietto.
A un certo punto il mio vicino prese il fazzoletto e si asciugò il sudore dalla fronte. Quindi lo ripiegò e lo lisciò, prima di risistemarlo nel taschino come stirato.
Dubito lo si possa classificare come qualcosa che è successo, ma si trattò comunque di un gesto di qualche significato, un gesto di altri tempi di un uomo di altri tempi.
Di sicuro si accorse che lo stavo sbirciando. Tossicchiò, quindi si passò la lingua sulle labbra per poi distenderle in una sorta di sorriso, che in effetti non era un sorriso. Piuttosto un umettarsi le labbra e questa fu l’espressione che mi germogliò, dal seme di chissà quale lettura.
Quindi tornò a guardare davanti e mormorò qualcosa che forse non era diretto a me, ma che comunque non intesi. Lo ripeté più forte.
«Firenze, la città di Acchiappacitrulli.»