“La bambina impazzita” su Atelierpoesia
Viviana Viviani, “La bambina impazzita” (Arkadia, 2023)
Di fronte all’ampollosità di certa poesia moderna, figlia bastarda di un coacervo raffazzonato di classicità e modernità spesso priva di una qualsivoglia forma di autonomo percorso, i versi di Viviana Viviani contenuti in “La bambina impazzita” (prefazione a cura di Pasquale Vitagliano) acquisiscono un valore originale, in cui ironia e gioco, profondità e ricerca, sguardo acuto e percezione producono una resa di notevole efficacia. L’intera composizione, suddivisa in 8 parti (oltre all’appendice), carica di stimoli e suggestioni, si affastella davanti agli occhi esplicitata in una scrittura pulita, debitrice qua e là da altri autori. È una poesia attenta all’essenziale che pur introiettando un tempo personale è permeato da suggestioni provenienti dall’esterno, dall’altro, siano esse figure dell’ambito familiare o amicale quando non i grandi temi universali o immagini evocate da metafore. L’attenzione al dettaglio è una caratteristica della poetessa ferrarese, come dimostra anche una pregevole lirica-filastrocca in endecasillabi (“La giovane stampante e il vecchio calamaio”) e più in generale il richiamo a una rima vagliata con acribia, mai banalmente concepita. Cuore di gran parte della produzione in oggetto è costituito dal sentimento e segnatamente da quello amoroso, connotato tuttavia da una difficile, complessa comunicazione tra i sessi: un amore ostinato che si scopre vilipeso e tradito, canzonato e dimenticato, sfilacciato quando non derubricato a puro istinto come accade dall’avvento dei social che ne hanno in molti casi stravolto il senso. Tutto ciò cade sotto la sferzante disamina di Viviani per essere trasposto in un verso imbastito di malinconica ruvidezza (“un sogno andato a male/serve a misurare/il filo dell’aquilone/la gittata del cuore”), ma che pure si mantiene aperto a una rinascita alimentando la speranza di una diversa realtà futura, come nel periodo dell’infanzia quando la sorpresa, lo stupore, la realtà fiabesca diventano conquiste quotidiane. È la passione che muove il percorso di questa scrittura e ciò poiché scrivere non è mai fotografare l’esistente, semmai costruire un nuovo mondo accanto a quelli che già conosciamo. Le sue sono composizioni che scombussolano l’ordinarietà, che non lasciano indifferenti, come se ci trovassimo sempre di fronte a uno specchio che deforma e modifica la visione di sé, dove appariamo nudi e indifesi di fronte alla verità. Così le età della vita si inseguono, si tradiscono finendo per mostrare come la vecchiaia possa tendere a una gioventù indefinita e la persona matura giocare a vivere un’adultescenza senza freni, superficiale, ripetitiva, sovente preda di un’arroganza indicibile. E superficiale è anche certo mondo maschile, depositario di vuoti simulacri valoriali, incapace di tessere relazioni alla pari con l’universo femminile e per questo sagacemente preso di mira. Più ampiamente è il ruolo della maschera come negazione/modificazione dell’Io a imbastardire le relazioni sì che ogni contatto con l’altro è preda di preoccupazione, per tacere dell’ipocrisia, elemento ancor più castrante e alienante nella comunicazione tra le persone. E attraversando i giorni nostri v’è un accenno anche alla tregenda della chiusura sanitaria per Covid: come in un novello Caproni, ciò che manca(va), come sale della terra, è anche per Viviani il sole. Più in generale la silloge pone in risalto la sapiente maturità di un’autrice che senza strizzare troppo l’occhio a questo o quell’autore di vaglia (del passato o contemporaneo) riesce a portare in evidenza le tracce della loro poesia mantenendo ben salda un’originalità di fondo e facendone anzi suggello di tutta la propria produzione. Si fa così insistente il discorso sulla lingua che Viviani coglie nella sua pienezza di fronte a un prosciugamento del vocabolario tipico della società odierna, spesso vittima dell’antilingua o della calviniana peste del linguaggio (la breve composizione “L’abigeato” è da esempio in tal senso). Una società sempre più preda, tra l’altro, di un’entropia di fondo nei confronti della quale uno strumento apotropaico e resistente può essere il recupero dell’aspetto ludico: il “lasciatemi divertire” di stile palazzeschiano che si riscontra in plurimi passaggi del volume in oggetto. Come quella “bambina impazzita”, che resta nascosta tra le pieghe di una donna cresciuta ma che non smette di incidere nella “carne” di questo nostro tempo.
Federico Migliorati
Il link alla recensione su Atelierpoesia: https://bitly.ws/ZAM3