Terra
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Ieri
Emma guardò il padre e poi il cielo, che si era fatto scuro all’improvviso. I suoi luminosi occhi verdi, capaci di cogliere e ammorbidire i più ruvidi spigoli della vita, avevano ancora tutta l’ingenua fiducia dei suoi undici anni appena compiuti. Ora quegli occhi, arrossati dal sale e dal vento, avevano davanti un mare gonfio come non lo avevano mai visto. In cielo c’erano solo grasse nubi livide che non le permettevano di scorgere l’orizzonte e lei, impaurita, incrociò gli occhi del padre, anch’essi in cerca di appigli che nessuno, lì in mezzo al mare, poteva dare.
La sua gioiosa fantasia iniziò a lasciare spazio a un velo d’insicurezza. Non riusciva a scorgere l’orizzonte reale e quello immaginario le appariva indefinito, perché il cielo si confondeva con il mare e tutto pareva offuscato in quel torbido giorno di settembre.
Lei, Emma, sapeva e capiva solo di essere in mezzo ad acque ostili, ma non riusciva a immaginare come avrebbero potuto uscire da quella situazione. Quindi, aveva paura. Non sapeva dove avrebbe messo il piede e come sarebbe stato il prossimo passo. La stessa mano forte ed esperta che negli anni l’aveva guidata indicandole i sentieri da percorrere, i pericoli da evitare e le bellezze da godere, ora le pareva lontana, tremante, quasi più impaurita della sua di bambina.
Erano in mare da più di un’ora, un giro in barca improvvisato, come era capitato altre volte in quelle settimane di vacanza a Ventotene. La Ginestra, la piccola deriva di papà, era bella per questo. Non aveva bisogno di coccole e preparativi, bastava calarla in acqua e poi tutto andava da sé, con naturale semplicità. Le onde cullavano, il vento spingeva, papà governava e tutto il mondo attorno si muoveva e ruotava come in una giostra al contrario.
Erano partiti dall’antico porto romano scavato nel tufo, diretti a Santo Stefano. Avevano circumnavigato l’isolotto sormontato dal carcere borbonico e si erano concessi un bagno veloce al largo della scogliera di levante, dove le rocce sommerse erano splendide da esplorare con maschera e boccaglio.
Emma amava queste acque, era la terza estate che trascorreva sull’isola pontina con mamma, papà e il cane Marrone, un bastardino di taglia media e pelo corto dal colore omonimo che Emma aveva raccolto per strada in campagna fuori Roma. Ferito a una zampa, aveva voluto immaginare per lui una casa, una famiglia, degli amici e un futuro migliore. Aveva impiegato poco tempo a convincere mamma e papà che quella era una cosa giusta da fare, l’aveva curato e cresciuto con tutto l’amore di cui era capace. Da allora trascorrevano ininterrottamente le giornate insieme, in vacanza e a Roma.
Marrone soffriva il mare, così come l’auto e pure la bicicletta, quindi le gite in barca gli erano precluse e anche quel giorno era rimasto a riva, aveva guardato Emma allontanarsi in mare seguendo con gli occhi la scia schiumosa della Ginestra, si era accucciato sulla mattonella di tufo più vicina all’acqua, concedendosi qualche spruzzo salato e lì era rimasto ad aspettare guardando fisso l’orizzonte liquido. Quella sera sarebbero stati ancora insieme, lui ed Emma.