Umor vitreo
Gentile signor Parsi,
sono stata costretta a meditare a lungo sulla nostra breve conversazione telefonica di ieri. Le avrò dato l’impressione di essere seccata per la sua richiesta e un po’ lo ero, non lo nascondo.
La verità è che la mia vita è oramai scandita da regole e riti che celebro senza resistenze e con sfibrata gratitudine. Tributo che si paga volentieri, in un’età in cui potersi un altro giorno alzare dal letto, avere ancora una volta l’opportunità di ammirare le montagne innevate, sedersi con le proprie forze a tavola per la colazione o riuscire a prepararsi all’ennesima partita a carte sono una conquista sul tempo che ci fiata sul viso la fine che incombe.
Ieri, quando mi ha telefonato, stavano per passare la cena. Sentivo fame già da diverse ore e rivendicavo pertanto il diritto di essere sgarbata e frettolosa, con lei. Mi perdoni. Non è nella mia natura.
Che poi, la natura di ciò che siamo, mi lasci dire, la scopriamo proprio in questi penosi momenti di primarie necessità e d’impulsi incontrollati, quando la maschera della buona educazione – se mi permette la metafora, ogni età ha di certo le sue – è come la dentiera ancora immersa nel bicchiere, sul comodino: non ce ne rendiamo conto e sorridiamo, ignari dell’imbarazzo che provochiamo, convinti che la nostra bocca esibisca ancora tutti i suoi denti. Arriva un momento della vita in cui la tirannia del corpo diventa più forte di quella della mente.