“La scrittrice obesa” su SoloLibri
Intervista a Marisa Salabelle, in libreria con “La scrittrice obesa”
Il nostro collaboratore Vincenzo Mazzaccaro ha intervistato Marisa Salabelle, ora in libreria con il suo ultimo romanzo, “La scrittrice obesa”, edito da Arkadia editore. Nel loro dialogo hanno parlato di scrittura, religione e della fame di successo che talvolta può tramutarsi in terribile frustrazione.
Marisa Salabelle è nata a Cagliari il 1955 e vive Pistoia dal 1965. È laureata in Storia all’Università di Firenze e ha frequentato il triennio di studi teologici presso il Seminario arcivescovile della stessa città.
Dal 1978 al 2016 ha insegnato nella scuola italiana. Nel 2015 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio dal titolo L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu (Piemme) e nel 2019 il libro L’ultimo dei Santi (Tarka).
Entrambi i romanzi sono stati finalisti al Premio letterario “La Provincia in Giallo”, nel 2016 e nel 2020.
Nel 2020 è uscito un il romanzo storico familiare, Gli ingranaggi dei ricordi (Arkadia editore) e nel 2022 il giallo Il ferro da calza (Tarka). Suoi articoli e racconti sono apparsi su riviste online e antologie cartacee.
Il suo ultimo libro è La scrittrice obesa (Arkadia editore, 2023).
Il romanzo è incentrato su una donna, Susanna Rosso, ossessionata dai libri e da quello che ha scritto che invia in continuazione ai grandi editori nella speranza di una pubblicazione, senza tuttavia ottenere risultati apprezzabili. Susanna compensa quindi la frustrazione mangiando cibo a consegna, come pizze e fritti, pericoloso per il suo metabolismo.
Su questo ultimo romanzo è incentrata la nostra intervista.
Come è nato il personaggio di Susanna Rosso, una donna che poi resta nella memoria del lettore?
Susanna è nata dalla mia esperienza di aspirante scrittrice: ho penato molto a trovare un editore per i miei scritti, e a un certo punto è nato dentro di me questo personaggio, che è una “me stessa” molto virata sul grottesco.
Il romanzo è nato come sfogo per la mia frustrazione, ma non voleva essere una lamentosa confessione, quindi ho cercato di dar vita a un personaggio che fosse tragico e comico al tempo stesso e mi è venuto spontaneo abbinare la sua esagerata fame di successo e di gloria con un’altrettanto smodata fame di cibo.
Se all’inizio Susanna voleva solo pubblicare un libro, i rifiuti degli editori poi diventano giudizi negativi sulla donna che si cela dietro ai manoscritti, lei stessa. È così?
Nella mia fantasia Susanna nasce già problematica: fin da ragazza scrive e mangia, mangia e scrive, ed è già scontrosa anche quando i primi riconoscimenti in piccoli premi di provincia potrebbero indurla a sperare in un avvenire pieno di soddisfazioni. Certo, col passare del tempo e con i continui fallimenti le sue peculiarità caratteriali si inaspriscono, fino a condurla progressivamente verso la follia.
Come donna è consapevole delle sue imperfezioni fisiche e se, in un primo momento, cerca di far qualcosa per migliorarsi e riesce anche a trovarsi un fidanzato, in seguito si lascia andare sempre più e non pare interessata ad avere una vita sentimentale, sebbene certe fantasie erotiche lascino supporre che in lei alberghi ancora il desiderio di piacere…
Mangiare, a un certo punto, per la donna, è solo un modo per conoscere cosa c’è fuori la sua casa, dal momento che mangia piatti pronti o altri prodotti che le arrivano grazie ai ragazzi che fanno consegne. Si ha come l’impressione che lei si veda trasparente. Perché nessuno la guarda?
Non penso che Susanna si senta trasparente, perché oltre ad avere una mole che non può passare inosservata, ha carattere e personalità; è lei, piuttosto, che cerca la solitudine e caccia via in malo modo le persone che in qualche modo desiderano starle vicine.
Invece si sente trasparente come scrittrice perché, a torto o a ragione, ritiene di avere del talento, ma gli editori, le riviste, le agenzie cui si rivolge non la rifiutano semplicemente: non la vedono proprio, non leggono le cose che scrive, non le rispondono, ed è questo che la fa soffrire e indignare al tempo stesso.
Le poche amiche, due, fanno fatica a capire cosa sta succedendo a Susanna, che nel frattempo ha perso persino la compagnia di un ragazzo straniero che faceva consegne. È la storia di un’ossessione, dunque, l’ossessione di scrivere e farsi conoscere?
Indubbiamente Susanna ha una personalità ossessiva: ossessionata dal cibo, ossessionata dalle storie che la sua fantasia elabora in continuazione, dal desiderio di pubblicare le sue opere, di essere letta e apprezzata.
Le sue amiche sono donne normali e sebbene apprezzino il talento di Susanna e le augurino il successo, non riescono a capire fino in fondo perché la mancanza di riconoscimento sia per lei tanto grave.
Arriva al punto di descrivere la protagonista in una casa sporchissima, dove lei si muove come una che effettivamente sta perdendo la testa. Cosa le accade davvero?
Inizialmente Susanna vive con la madre, che si occupa della casa e di tutte le necessità materiali. Dopo la morte della madre Susanna tenta di darsi una certa normalità, si compra dei vestiti, si mette a dieta, trova un lavoro e un compagno. Ma col passare del tempo e con il crescere della sua frustrazione questa parvenza di normalità crolla, l’unica cosa importante per lei è scrivere, non si cura della casa, ricorre a cibi spazzatura, ingrassa smisuratamente e scivola nella follia.
Non è stato per lei, come scrittrice, doloroso dare contezza di tante immagini anche macabre di Susanna?
La scrittura è un’attività che può essere molto coinvolgente, a volte anche in modo doloroso. Ho descritto il corpo sfatto e addirittura putrescente di Susanna, ho scavato nelle sue fissazioni, nei suoi deliri, e ho sofferto per lei, ma in genere io mantengo un certo distacco rispetto agli argomenti che tratto, la mia difesa, in particolare, è l’ironia, che pervade tutte le mie opere, e che rappresenta la mia arma per proteggermi dalla sofferenza.
Prima di questo libro, sempre per Arkadia editore, ha scritto Gli ingranaggi dei ricordi. Ce ne parla?
Gli ingranaggi dei ricordi è un romanzo ispirato, con una certa libertà, alla storia della mia famiglia e ai miei genitori che da ragazzi, negli anni della Seconda guerra mondiale, hanno vissuto avventure che non sono certo uniche, in quei tempi tutti hanno affrontato peripezie di vario genere, ma che per me era importante raccontare.
È una storia che si svolge in Sardegna tra il 1943 e il 1944, e descrive parallelamente le disavventure di tre orfani, un ragazzo e due ragazze, costretti a vagabondare a piedi per tutta l’isola, e quelle di una famiglia borghese costretta a sfollare in campagna dopo i disastrosi bombardamenti che hanno ridotto Cagliari a un cumulo di macerie. Si inserisce nel testo anche la vicenda di un partigiano, Silvio Serra, fratello della mia nonna materna, che fece parte del drappello che compì l’attentato di via Rasella, e che nel romanzo faccio ricostruire a un giovane studente di storia.
È un libro un po’ complesso, con quattro voci narranti che si alternano, ma dopo i primi due o tre capitoli ci si comincia a orizzontare e la lettura scorre.
Si accosta anche alla letteratura di genere, nel 2022, per un giallo-noir, per i tipi di Tarka, Il ferro da calza. Secondo lei perché i gialli, i noir vendono e convincono?
Il romanzo con il quale ho esordito, L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu, nel 2015, era una “specie di giallo”, imperniato sulla vita di una donna difficile (sono quelle che mi riescono meglio!) che veniva uccisa e abbandonata in un fosso.
Non era principalmente un giallo, ma c’era il delitto, c’erano le indagini e c’era anche un giornalista che seguiva la vicenda. A quel personaggio mi sono affezionata e l’ho usato in altri due romanzi che sono più strettamente dei gialli: L’ultimo dei Santi e Il ferro da calza, entrambi editi da Tarka.
Il giallo è un genere che apprezzo come lettrice e che offre a uno scrittore la possibilità di affrontare diverse tematiche nella veste accattivante del romanzo d’intrattenimento. In fin dei conti un giallo o un noir riesce abbastanza bene a tracciare un quadro di un determinato ambiente e può dire molto della società in cui viviamo.
Lei ha un percorso accademico di tutto rispetto, dove figura anche un triennio di studi teologici. Credo che la domanda se lei è credente le sia stata fatta anche da persone che non sanno che lei scrive.
Sono cresciuta in un ambiente cattolico, sia in famiglia che nei gruppi e nelle associazioni che ho frequentato da ragazza, e molto di quanto ho assimilato in quegli anni e in quei contesti ha contribuito alla mia formazione. Non a caso in tutti i miei romanzi sono presenti preti o suore. Con gli anni mi sono allontanata dalla fede, ma continuo a condividere molti dei valori più nobili del cristianesimo e a svolgere attività di volontariato in ambienti cattolici.
Il 23 aprile scorso si è celebrata la Giornata mondiale del libro. Lei pensa che avremo sempre bisogno di storie? E come spiega questa sempre più folta schiera di scrittori che parlano di sé, componendo memoir, diari di bordo, confessioni, come unica realtà possibile?
In realtà io credo che chi scrive parli sempre e solo di sé, io però preferisco “raccontare una storia”, filtrando le mie esperienze attraverso la finzione, piuttosto che scrivere le mie memorie o confessioni.
Secondo me sì, abbiamo e avremo sempre bisogno di storie, che siano raccontate davanti al fuoco, lette in un libro o viste al cinema.
Vincenzo Mazzaccaro
Il link all’intervista su SoloLibri: https://bit.ly/3HIqq5g