Come la noce nel cuscino
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3 giugno
E se certe notti non finissero mai? Se solo volessi sentire il tuo respiro? Vegliare i tuoi sogni e baciarti le fossette? Accarezzare i tuoi capelli, certe notti. Lasciar andare la mano sul tuo profilo e lungo il collo, poi sul petto, mentre dormi. E adagio, piano, sul tuo ventre, dove tutto il calore del mio corpo si concentrerà dentro di te e mi farà cadere, inerte, sul tuo cuore.
Mi sussurri, a occhi chiusi, di farti i grattini. Mi immergo tra fondali di seta, poggio le labbra sulle tue forme nude, e nell’orecchio ti sussurro: «Amore, non andare via.» Un brivido mi attraversa mentre ti giri verso di me. Improvvisamente, algida, ti avvicini lenta mentre ti guardo immobile. Stregata, emozionata. Addolorata.
«Ti amo!», mi dici quasi raggiante. Mentre la tua pelle ritorna fuoco.
È la prima volta che piango facendo l’amore.
5 giugno
Un giorno mi dicesti che mai mi avresti detto «Ti amo». Non ricordo adesso perché non ti chiesi il motivo, quella sera di aprile. Deglutisco pensieri rotti e interrotti da presunte, presuntuose e impertinenti diatribe mentali.
6 giugno
Sono andata via barcollando. Neanche ubriaca mi sarei lasciata andare così, a peso morto. Mi porta il vento. Mi sento dentro un corpo vuoto. Rincorro le tue lenzuola che fuggono via. Giocano a inseguirsi e a nascondersi. Mi sento addosso un mantello che pesa di sudore, di passione. Odora di dolore. Ho ancora addosso la voglia di te ma non posso più neanche sfiorare la tua pelle. Il tuo profumo si è disperso tra Calle de las Infantas e Calle de Víctor Hugo, nel tuo quartiere preferito, in un’insolita Madrid, avvolta nella nebbia.
7 giugno
Sono sempre partita io. Toccava agli altri restare. Salutarmi. Infatti non mi sono congedata da lei. Me ne sono andata alle prime luci dell’alba, mentre dormiva o magari faceva finta. Non le ho neanche lasciato un biglietto, né baciata. Sono scappata. Non ce l’ho fatta a rimanere lì ad aspettare che si facesse mezzogiorno, prepararle la colazione e seguirla tra una stanza e l’altra mentre nervosa si chiedeva dove mai avesse lasciato il biglietto, la crema, il libro che le ho regalato. Figuriamoci se l’ho accompagnata all’aeroporto, se ho trascinato la sua valigia con quelle rotelle assordanti fino al controllo di sicurezza, se l’ho abbracciata, baciata, dicendole tutto d’un fiato: «Tranquilla, amore, andrà tutto bene, lo so che farai tutto alla grande. Io ti aspetto… Dormi in aereo e fammi uno squillo appena arrivi.»
8 giugno
Niente. Me ne sono andata prima io, ancora una volta. Come se dovessi partire anche io. O peggio, solo io. Né un messaggio né una chiamata al cellulare. Ce l’ho tra le mani e tremo. Non ce la faccio. Nulla da dire o forse troppo. Tutto da perdere. Tutto da rifare. Un vuoto che rimbomba sordo. Mi sento fiacca e spoglia. Mi sento inetta. Piango.
9 giugno
Piango ancora. E ancora. Ma perché?
Chissà se piangi anche tu.
10 giugno
Eppure ci sarei potuta andare all’aeroporto. Farle una sorpresa, giungere all’improvviso con una rosa. Invece, per tutto il giorno, non ho fatto altro che deambulare nelle strade di questa città, senza meta, come la pallina di un flipper impazzito. Ogni angolo mi ricordava lei e la sua mano stretta nella mia. I nostri passi insieme. Le nostre passeggiate, le corse per acchiappare l’ultimo bus della notte. Quante volte lo perdevamo e tornavamo a casa a piedi, infreddolite, dandoci la mano dentro la tasca del giubbotto. Certe notti ho creduto che fosse per sempre. Altre no.
Avete mai contato gli istanti in cui avete detto «Sarà per sempre», «È lei?». Quante volte glielo avete detto? Quante volte vi siete illuse anche voi? Quante volte avreste venduto i vostri sogni al diavolo pur di amare un po’ di più?
11 giugno
Lei diceva sempre che io ero una «vagabunda del mundo». Mi ha detto «Piérdete conmigo», perditi insieme a me, il giorno del nostro primo appuntamento. Per tutta la notte abbiamo attraversato, a piedi, vicoli così stretti da poterci sfiorare, cantando la stessa canzone, quella che girava a oltranza nelle radio spagnole. Camminavamo a caso e a ritmo sostenuto, sorrette e ispirate dal vino. Ci parlavamo sopra, giocando a indovinare quello che ci saremmo dette. E lei, ogni tanto, azzeccava. In un bar di Lavapiés, che era forse grande quanto il mio bagno, mi aveva offerto un bicchiere di assenzio. Quando mi incantavo a guardarla lei spostava lo sguardo, poi faceva un passo verso di me, e io mi sentivo già sua. Sapeva tutto di cinema e di Fellini, Tornatore e Morricone era una cultrice. Di ogni film si ricordava citazioni, visi, pose. Mi confessò che aveva scritto una sceneggiatura, però le mancava il finale. Voleva farlo a effetto ma non ci riusciva. Le dissi che anche io ero in crisi perché non riuscivo a finire il mio secondo romanzo. In quel momento i nostri occhi si erano incrociati, illuminati dalle luci del Museo Reina Sofía che, proprio in quel barlume di istante, puntava i fari sui nostri corpi e ci accendeva come fuochi d’artificio. Aveva tirato a sé la mia giacca e mi aveva detto: «Prendiamoci questa città.» Lei che aveva già attirato ogni luce su di sé. Lei che ardeva di vita come il sole di agosto. Lei che mi aveva baciato per prima senza chiedere permesso, smantellando un muro di chiodi, sugli scalini del Teatro Real.
Il temporale estivo non mi lascia altra scelta che scrivere. Sul suo ritorno. Sulle cose non dette, su quelle ripetute, sui punti interrogativi allora senza importanza. Quando si inizia ad aver paura delle proprie sicurezze? O solo ci si accorge di esse quando crollano come palazzi fatiscenti? Mai nessuno che suoni l’allarme.