La stirpe dei wurdalak
11 aprile 2009
Rocca di Saterna, Sulmona
La benna della pala meccanica assestò l’ultimo colpo al porticato della vecchia canonica, un edificio che aveva più di cento anni. La tettoia venne giù, trascinando con sé l’ultimo residuo del muro rimasto in piedi.
A Rocca di Saterna il terremoto aveva fatto crollare quasi ogni edificio; gli unici rimasti in piedi erano proprio quelli più antichi, nella parte vecchia del borgo, ma per la maggior parte erano pericolanti e dovevano essere abbattuti.
La squadra di operai era al lavoro da due giorni, praticamente senza sosta.
Il bulldozer entrò in azione prima ancora che la nuvola di polvere si posasse del tutto, ma l’autista fermò il mezzo quasi subito e si sporse fuori dall’abitacolo, imprecando e facendo gesto di fermarsi agli altri operai.
«Non andate avanti! Fate attenzione!»
Il walkie-talkie dentro la cabina del cingolato iniziò a gracchiare.
«Che diavolo succede?», urlò la voce dell’ingegnere responsabile delle demolizioni.
«Dobbiamo fermarci! Mi pare che là in mezzo la terra stia cedendo.»
L’autista uscì dal mezzo e percorse una decina di metri, avvicinandosi fino a dove la terra presentava un avvallamento: sembrava che una piccola voragine si stesse aprendo proprio al centro di quella che doveva essere una vecchia cucina. «C’è un locale là sotto», gridò indicando in basso.
«Stai indietro», ordinò l’ingegnere, raggiungendolo con passo spedito, «fai vedere a me.» Si inginocchiò e osservò attentamente: si vedevano delle travi di legno sotto le mattonelle del vecchio impiantito e, più in basso, uno scantinato angusto, ricavato a ridosso di uno dei muri portanti. C’era anche una porta in ferro, che doveva dare accesso a un altro locale, più o meno in corrispondenza dell’ala crollata. Sul lato destro alcuni gradini di legno, oramai completamente marci, risalivano per poco più di un metro la parete interrata; erano tutto ciò che restava di una scala che conduceva sotto la casa. Doveva esserci una botola da qualche parte, forse vicino a una delle pareti in fondo, le uniche ancora rimaste in piedi, oppure subito dietro, sotto le macerie del tetto. «Probabilmente era la cantina della casa», disse l’ingegnere, risollevandosi e pulendosi i pantaloni con le mani.
«E ora noi che facciamo?», chiese l’autista del bulldozer.
«Intanto voglio abbattere quel che resta del solaio e scendere giù a dare un’occhiata… magari troviamo qualche bottiglia di vino ben invecchiato», disse, pensando di fare una battuta spiritosa.
Un mezzo meccanico, con un martello demolitore montato sul braccio snodato, venne fatto avanzare sui detriti fino a qualche metro dall’apertura, per sfondare un’ampia porzione del pavimento residuo. Poi venne portata una scala e due uomini si calarono nel fosso.
La porta in ferro era ridotta oramai a un unico ammasso di ruggine, ma ci vollero parecchi colpi di piccone per scardinarla. Quando venne abbattuta, dall’interno della stanza uscì un disgustoso tanfo di chiuso e di erba in decomposizione.
«Sembra di entrare nella tomba di Tutankhamon», ironizzò il più giovane dei due operai.
«Non so bene chi sia il tizio di cui parli, ma hai ragione», fece l’altro illuminando l’interno della camera con la torcia. «Questo posto non è molto più grande di una dannata tomba.»
Il locale misurava pochi metri quadrati. Il fascio di luce mostrava un soffitto basso e delle pareti spoglie che trasudavano umidità. Quando la torcia si abbassò verso il pavimento e illuminò sulla sinistra, i due videro qualcosa: pareva un involto lungo poco più di un metro e mezzo.
«Che diavolo è quella roba?»
L’uomo più anziano avanzò di qualche passo per guardare meglio.
Dapprima gli sembrò di scorgere un manichino, ma si rese subito conto che si sbagliava e si ritrasse di scatto.
«Che mi venga un colpo!», gridò. «È un cadavere!»
«Che cosa dici?», fece il collega, strappandogli di mano la torcia.
Indirizzò di nuovo la luce e guardò meglio: disteso sul pavimento c’era il corpo di una donna!