Da Angioy a Lussu
Introduzione
Il pensiero, si sa, consente ogni volo, non ha limiti. O, forse no, uno ce l’ha, la ragionevolezza. Se non è sensato, almeno un pochino, anche il pensiero è pari al nulla, questa è la sanzione. Se è argomentato, non arbitrario, il pensiero può esprimere i concetti e porre i quesiti più audaci e perfino bizzarri. Per esempio, si può dire che la Sardegna non abbia più avuto dal lontano 1796 – sì dal 1796! –, dalla primavera di quell’anno, dalla mitica cavalcata dell’Alternos da Cagliari a Sassari e al Logudoro, un progetto di autogoverno della Nazione sarda? Progetto inteso non come astratta ideazione, ma come programma di lotta di masse in campo. Ci si può ancora chiedere se quel pensiero, pur senza avere gambe e radicamento in movimenti reali, come un fiume carsico sia sempre stato vivo e ne sia rimasta traccia un secolo e mezzo più tardi nello Statuto speciale? E ancora ci si può interrogare sull’esistenza di un legame fra quella scintilla originaria di autogoverno e la riflessione nata nelle trincee dell’Altopiano, che poi è stata l’anima del Movimento combattentistico?
Però, non basta crederlo. Per sostenerlo occorre individuare i soggetti che hanno mantenuto accesa la fiaccola, passandosela di mano in mano fino agli anni liberatori dell’Assemblea costituente del 1946. Tuveri, Asproni, Lussu e Gramsci hanno una matrice in quel pensiero? Ma qui sorge un altro quesito. Lo Statuto sardo, analizzato alla luce della storia sarda delle origini, è una Carta data da sé o è una Carta in certo senso ottriata, concessa? Basta dire che lo Statuto è nato da un processo popolare e da organi democratici, quale certamente fu l’Assemblea costituente, per affermare ch’esso non è, seppure in qualche misura, estraneo al sentimento sedimentato dei sardi? Per esempio, rispetto alla visione angioyana, esso è autoprodotto o eteroimposto? Rimaneva qualcosa della “sarda nazione” nel 1946 dopo l’assorbimento piemontese e gli ottant’anni dall’Unità d’Italia? Chissà! Mentre nel 1796 molti pensavano che essa esistesse e così credevano e dicevano Angioy e il gruppo dirigente d’alto profilo che gli stava attorno.
Sta qui forse la ragione dei mali e delle deficienze dello Statuto? E se questo è almeno in parte vero, quale percorso ideale prima che programmatico i sardi devono seguire alla ricerca di una Carta d’autogoverno? Questo statuto di autonomia, per essere tale, deve anzitutto essere frutto delle forze interne e fondarsi sulla storia della comunità di riferimento?
A questo punto sorge spontanea un’ulteriore domanda, apparentemente insensata: può il pensiero degli angioyani ispirare, con i dovuti adattamenti non solo terminologici, una nuova costruzione dell’autogoverno sardo? Il quesito è impossibile se si guarda al calendario. Un secolo e mezzo ha cambiato il mondo. Trarre elementi da un’elaborazione così lontana, pensata in un ambiente radicalmente diverso, è operazione al limite della follia o folle tout court. Se si bada invece al fatto che un’ipotesi di autogoverno, per essere tale, deve fondarsi su un pensiero interno, allora la domanda appare sempre audace ma non folle. Anche perché un’idea forte imprime una direzione al moto storico, che può assumere varie forme e concretizzarsi dopo molto tempo; e anzi la bontà dell’idea sta proprio nel suo durare nel tempo e nel coinvolgere uomini e masse di epoche distanti e diverse.
In effetti, non son pochi, fra gli storici, a credere che le radici della “Fusione perfetta” risalgano a quel fatidico giugno 1796 in cui l’ipotesi angioyana fu ripudiata con violenza dalle forze dirigenti del Regnum Sardiniae, l’Alternos destituito e messo fuori legge, i suoi seguaci perseguitati con le tipiche forme del terrorismo politico-amministrativo-giudiziario. La disfatta del tentativo estremo di autogoverno conduce, superate le ultime resistenze, al massimo appiattimento sulle istituzioni torinesi. Angioy aveva ipotizzato una trasformazione degli Stamenti in Assemblea generale, aveva pensato di riconquistare la sovranità del Regnum azzerando le potestà pubbliche e i privilegi economici dei feudatari e questi scompaiono nella fusione perfetta insieme agli organi parlamentari e giudiziari dei sardi, la nazione sarda affonda diluendosi in quella comunità composita e più vasta dei domini dei Savoia. Scompare anche il feudalesimo, ma non i feudatari che si riciclano come parte del gruppo dirigente attorno alla Corona. Cagliari non è più capitale di un Regno, inizia la lunga notte del silenzio conseguente all’affogamento della voce dei sardi in organi e contesti che non li contempla come dotati di soggettività nazionale o istituzionale. Più che una sconfitta una disfatta, come quella che colpì l’Italia, secondo Asor Rosa, nel 1527 con la discesa dei lanzichenecchi nella penisola, chiamati anch’essi da forze interne.
Una disfatta cancella tutto, ma non il pensiero, l’idea e tantomeno il sentimento dell’autogoverno, che evidentemente rimane in fondo all’anima di molti sardi e si esprime attraverso la voce di alcuni grandi intellettuali. Ecco la questione: le insoddisfazioni per lo Statuto speciale possono trovare, se non risposta puntuale, un’ispirazione in questa voce? Possono avere un riferimento originario, nel pensiero e nell’azione di Angioy? O meglio possono poggiare la loro azione su una linea sarda del federalismo?
Su questo quesito, apparentemente insensato, e agli altri che abbiamo posto, c’illudiamo di dare in questo scritto, se non una risposta, almeno elementi di conoscenza e di orientamento.