Folisca
1
L’estate non mi è mai piaciuta e non mi è mai piaciuta la notte. Di giorno stavo all’ombra, in quella casa umida; di notte soffocavo, in tre nello stesso letto, tra sudori e umori, negli odori mischiati della prima giovinezza.
L’estate era ricerca di riparo, fuga dal sole. Di quei mesi amavo solo il mattino presto, il cinguettio di vite libere e il frullo delle loro piume.
Mi svegliavo molto prima di voi per uscire e stare nella luce che arrivava. Io la aspettavo nelle ore ancora fresche e nel silenzio, nella pausa dalle vostre voci, soprattutto dalla tua.
L’estate per me è sempre stata buia e buio fu pure quel giorno di fine giugno, quando rientrasti dalla notte, sfatta e bella, sì, ancora bella, nonostante i denti rovinati, la pancia cadente, segnata da nove vite vomitate bestemmiando il Cielo, il luogo dove speravi che andassimo prima di vedere la luce, e la Terra, quella in cui avremmo dovuto trovare uno spazio per esistere.
Figliavi di notte, sempre, come le bestie che devono difendersi dai predatori, costrette dalla natura a nascondersi scavando tane.
La colpa dei tuoi denti marci l’hai sempre data a me. Prima di me, dicevi, la tua bocca era bella e profumava. Stuzzicavi i maschi già solo con un sorriso e, a causa mia, quell’arma non la usavi più.
Io sono la nona. Dopo di me, il tuo tempo di sangue è finito e la vita non ti ha più abitato, anche se lui ha continuato a cercare, ubriaco, tra le tue gambe. E non lui soltanto.
Quella mattina d’inizio estate mi guardasti con una specie di pietà nello sguardo, con occhi che non ti avevo visto mai o che non ricordavo. Mi dicesti: «Hai quasi tredici anni, io ho cominciato un po’ più tardi, ma tu… tu sei già pronta.» Mi guardasti con una specie di dolore rabbioso. «Il Cavaliere è un uomo gentile, sa come trattare una donna. È solo, la moglie è al camposanto da qualche mese e la cameriera se n’è andata poco dopo la morte della signora. Vestiti, ti sta aspettando all’angolo.»
«Ma io non sono una donna», e ti guardai.
«Lo sei, nanin. Oramai, lo sei», e mi guardasti.
Nanin. L’unica tenerezza concessa e non la sapevi nemmeno dire. Ti usciva stitica dalle labbra. Eravamo una davanti all’altra, diverse per altezza e forma. Non sono mai sembrata tua figlia e, tante volte, ho immaginato, ho voluto, ho creduto di non essere mai uscita dal tuo corpo. In fondo, che certezza potevo avere? Magari mi avevi trovato nel vicolo dei lavandai, in mezzo a panni da sbiancare con la cenere, o al ritorno da una delle tue notti, mentre piangevo in una cesta e, in quel momento, vedendomi più disgraziata di te, hai provato qualcosa di simile a un sentimento.
Eri alta, ossuta, chiara di capelli e di occhi ed erano gli occhi la cosa tua più bella. Non il sorriso, come dicevi tu, ma lo sguardo capace di bagliori nella penombra. Una volta ho visto una pietra dello stesso colore al dito di una donna che usciva da teatro, senza guanti. Quella luce mi riportò i tuoi occhi.
Tra noi non ci furono più sguardi, da quella mattina di giugno. Nei miei pochi anni a venire, ti incontrai un paio di volte, di notte. Finsi di non vederti ma non ti dispiacque.
Ti avrei riconosciuta al buio dall’odore del tuo fiato, dal rumore del tuo passo sostenuto da ginocchia fragili, abituate alla pietra. A dieci anni iniziasti a lavare lenzuola, abiti e tovaglie dei signori: lo raccontavi sempre. Cumuli di colli e maniche da sbiancare, coperte da sbattere energicamente sul brellin (*tavola di legno), in piedi o inginocchiata per ore in uno dei lavatoi sul Naviglio Grande. In un tempo in cui si lavavano più gli indumenti che i cristiani, tu ereditasti il mestiere da tua madre, ma non ti bastò.
Vicino al vicolo dei lavandai c’era una bottega che vendeva candeggina, spazzole, sapone e liscivia, quel paltun che ti dava soddisfazione e rendeva più bianca ogni cosa, tranne l’anima. Il proprietario era un uomo generoso e ti insegnò lui a dosare per bene la cenere del carbone e a cuocerla mischiandola all’olio. Ci volle un po’ per realizzare una liscivia perfetta ma imparasti. Lui ebbe pazienza.
Tornavi a casa con pezzi di sapone regalati e altri piccoli doni che non c’entravano nulla con il tuo mestiere di lavandaia. Potevano essere biscotti o frutta candita. Una volta rientrasti con un barattolo di marmellata di albicocche che lui aveva sottratto dall’ordinata dispensa di sua moglie. Nessuno mai ti fece domande.
Gli anni vissuti, piegata sull’acqua a strofinare stoffe, lasciarono segni visibili sul tuo corpo magro e sulle mani rosse e screpolate anche ad agosto.
Me le ricordo ruvide sulla mia faccia.