Le scintille di Alma
Prologo
Percorre un lungo corridoio. C’è silenzio, spezzato solo dal cigolio delle suole sulle assi di legno del pavimento.
Il castello è immerso nella penombra della sera e avvolto nella fitta nebbia che sale dalla pianura. Il vento balla e fischia nei cardini delle vecchie finestre.
È da molto che non tornava qui, ma in un attimo ritrova il mistero che il luogo sprigiona, la sua energia. Attraversa salotti damascati con i mobili ricoperti da teli bianchi, camere da letto sfarzose, stanze racchiuse una dentro l’altra come matrioske.
Raggiunge il salone dei ritratti dove un imponente lampadario in ferro battuto diffonde una luce fioca.
Gli sguardi penetranti degli antenati baffuti e quelli più languidi delle nobildonne la osservano dalle cornici dorate inchiodate ai muri. Si sofferma davanti all’immagine di una giovane pallida e raffinata, con il viso teso segnato da occhiaie violacee e labbra bianche di ghiaccio. Un moto di nostalgia la scuote: il loro tempo insieme è finito da molti anni.
Dal dipinto accanto un uomo dai capelli scuri e folte sopracciglia la scruta con sguardo tenebroso. Emana un fascino inquietante, che insieme attrae e respinge.
L’ultimo quadro ritrae una donna che le somiglia molto. Ha il suo arancio nei capelli scarmigliati e le stesse efelidi sparse sul piccolo naso diritto. Nei suoi occhi luccica la malinconia. «Qui è stato l’inizio. Qui ci sono tutte le risposte», bisbiglia dalla parete. La sua voce è appena un sussurro.
L’azzanna il morso del rimpianto e delle possibilità perdute.
Tra una libreria stipata di volumi polverosi e una scrivania che ospita un vecchio mappamondo, scorge una porta di legno. Si ricorda che conduce a una delle torri. È massiccia e pesante, la apre con sforzo. Sale per la stretta scala a chiocciola, facendo lo slalom tra le ragnatele.
Finalmente è in cima, all’aria aperta, nell’umidità della notte che avanza. Le pare di dominare il mondo, da qui. Intorno a lei le rosse torri neogotiche e le merlature del castello. Sotto, il fossato ora adibito a giardino, le scuderie deserte e qualche animale notturno che attraversa veloce il parco.
Il passato le viene incontro, con immagini nitide. Sono frammenti che poi si compongono in un unico flusso. C’è lei, bambina, che gioca tra i tigli e le statue di marmo bianco, nella canicola estiva e nelle sere di luna piena. I cugini e le amichette, complici di quel tempo magico e perduto, naufragato nel mare nero dell’oblio. Sua nonna la contessa che, seppur altezzosa e scostante, acconsentiva che casa sua fosse un luogo di incontro e svago. Gli adulti nel gazebo a chiacchierare e bere limonata, i bambini liberi di scorrazzare. La mamma nei giorni buoni, una fucina di proposte divertenti e giochi sempre diversi. E poi suo padre, che arrivava da Milano per il fine settimana; quando sentivano il rumore della macchina al cancello, lei e i cugini correvano alla spicciolata ad accoglierlo.
Erano i giorni in cui tutto pareva aperto e possibile, il futuro un miraggio lontano ancora da disegnare, un gomitolo di occasioni da dipanare e intessere.
E poi si sveglia, di soprassalto. È frastornata e ci mette qualche istante a riprendere contatto con la realtà. Pian piano le sensazioni si depositano e lo straniamento si stempera.
Si rannicchia tra le coperte, rigirandosi più volte, e infine si alza dal letto rifugiandosi nella sua compostezza di sempre.