La riva lontana
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Un’alba grigia avvolge il paesaggio e stringe il cuore. Questa mattina la terra si è svegliata immersa in un’insolita bianchezza. Insolita in questa terra d’Africa in cui vedo la neve per la seconda volta in tredici anni. La prima fu quando nacque mio fratello. Allora il freddo era tale che la maestra, per rendere sopportabile il torpore che ci assaliva, ci fece saltare per ore al ritmo di un inesauribile op! op! E ora, questa mattina, come un mesto addio. La neve ha sempre accompagnato i giorni infausti della mia vita. Stringo forte il cappotto intorno al collo. Ho delle scarpine nere, troppo delicate per questo clima inatteso. Metto il naso fuori dall’uscio, non so cosa fare. Eppure bisogna andare. Non so camminare nella neve, credo di non averlo mai fatto. Lo zio, in un ultimo gesto d’affetto, mi prende in braccio fino alla macchina. Non oso quasi alzare gli occhi sul paesaggio di colline bianche. So che l’orizzonte è tagliato dalla massa della montagna, di un azzurro sognante in tempi migliori, oggi di un grigio angosciante, suppongo. Non voglio vederla, non voglio portare dentro di me per sempre l’immagine schiacciante di quest’ammasso informe.
Lo zio mi depone delicatamente sul sedile dell’automobile mentre dietro di noi la zia, schiamazzante come una gallinella bianca, chiude l’uscio. So che non rivedrò mai più quella casa, che rimarrà in me nella sua luminosità estiva, col fragore del vento che la scuote.
Ogni estate, prima della raccolta delle mandorle, andavamo a casa degli zii. Il babbo doveva aiutare il fratello nel faticoso periodo della mietitura. Si alzavano all’alba, trangugiavano un rapido caffè e sparivano dietro le colline da dove emergeva, lenta e maestosa, la sagoma di una mietitrebbia. Rientravano a turno verso le nove per quella che la mamma chiamava la colazione: due grandi piatti di peperoni verdi e pomodori fritti. L’aroma pungente delle verdure che sfrigolavano nelle grandi padelle giungeva fino al mio letto e portava con sé un augurio di buona giornata. Mi alzavo poco prima che tornasse il babbo, lo aspettavo e facevo colazione insieme a lui. Intingevo il pane nella polpa tiepida del pomodoro, tagliavo con la forchetta il peperone, mentre la frescura del mattino accarezzava le mie braccia ancora calde di sonno e di sogni. Chiudevo gli occhi per meglio assaporare il pezzetto di pane, mentre le narici si dilatavano allo spasimo per cogliere gli odori del cibo che il minimo alito d’aria fuorviava. Sedevamo all’ombra della casa, davanti all’ingresso principale, sul lastrico che in famiglia chiamavamo cementaggio, dove la mamma e la zia avevano faticosamente spostato il pesante tavolo da cucina. Il babbo parlava delle straordinarie prestazioni del nuovo trattore, dell’infiacchita ma fedele mietitrebbia che il nonno aveva comprato l’anno in cui nacque la zia Anna e che da più di vent’anni continuava a prestare la sua opera con un’abnegazione commovente. Adoravo la mietitrebbia. Quando la sera rientrava dai campi, traballante come una grassa contadina carica di anni e di pacchi dopo una giornata di mercati, mi arrampicavo sui gradini che portavano alla piattaforma, mi sedevo al posto di guida e, soprattutto quando la malinconia mi assaliva nel tramonto ancora caldo, partivo per viaggi immaginari che duravano ore, fino a quando il mio nome, ripetuto dalla mamma ormai esasperata, non mi riportava in cucina dove la tavola apparecchiata non aspettava che me. Quando l’esuberanza pulsava nelle mie vene come capocchie di spilli pronte a uscire dolorosamente dalla pelle, dovevo correre e salire d’un fiato sulla piattaforma per poi scivolare verso terra dal piano inclinato di legno levigato da cui abitualmente venivano scaricati i sacchi di grano pieni. Ripetevo questo gioco con ossessiva puntigliosità fino al richiamo della cena. La notte, poi, sognavo spesso di cadere dalla piattaforma e, mentre il mio corpo piombava verso il suolo, mi svegliavo di soprassalto con il cuore che batteva così forte che temevo uscisse dal petto.
Quando le macchine non creavano problemi, il babbo parlava volentieri dei contadini di cui sapeva tutto, anche se mai si sarebbe permesso di fare domande. Non amava apparire indiscreto. Non era nella sua indole frugare nella vita dei suoi dipendenti come molti facevano con disinvoltura. Eppure tutti gli raccontavano i propri affanni quotidiani, spesso per chiedere consigli, ma a volte per il semplice piacere di riferire fatti trascorsi e di cogliere il commento con cui lui chiudeva immancabilmente il discorso.
Certe mattine, il babbo tornava dai campi scuro in volto. Le spigolatrici, che di solito seguivano la mietitrebbia raccogliendo tutto quello che la macchina aveva dimenticato dietro di sé, si facevano più audaci e avanzavano oltre le sue fauci. Allora succedeva un vero putiferio: lo zio urlava a più non posso, minacciava di ricacciarle indietro con la doppietta. Le donne battevano in ritirata, ma recuperavano rapidamente terreno appena lo zio voltava lo sguardo. Lui riprendeva a spolmonarsi e, solo quando prometteva l’intervento della forza pubblica, le contadine pian piano sparivano… Quelle mattine, in verità piuttosto rare, il babbo arrivava un po’ più curvo del solito, come se la miseria di quelle povere donne pesasse per intero sulle sue spalle. Snocciolava quattro parole per spiegare alla mamma la situazione, mangiava frettolosamente e spariva. La zia capiva che il marito avrebbe saltato la colazione. In quelle giornate l’atmosfera diventava cupa, come se dai campi salisse verso casa un’onda minacciosa. In cucina regnava il silenzio. Le due donne trafficavano senza fiatare, all’apparenza assorte nei loro pensieri ma con i sensi ben vigili. All’ora di pranzo si scioglieva un po’ la tensione. Gli uomini arrivavano a turno, prima lo zio, a riprova che la questione era risolta, ma forse ancora non del tutto per lui che continuava a tuonare. Sentiva la sua autorità minacciata e, poiché aveva creduto di scorgere tra le donne le mogli di alcuni braccianti, aveva punito questi ultimi: non avrebbe portato loro la spesa il sabato successivo. La zia approvava e sosteneva con petulanza le ragioni del marito. La mamma taceva. Il babbo arrivava, mangiava in silenzio e ritornava nei campi. Il giorno del mercato, sarebbe poi tornato da Pont-du-Fahs con qualche etto in più di tè e di zucchero su richiesta segreta dei poveri contadini.