“Atlante della nostalgia” su Pensierosecondario
Presente/assente: Atlante della nostalgia di Marco Patrone
Nel Marco Patrone scrittore è ben riconoscibile il blogger che recensisce libri nonché l’autore di tweet ironici e disarmanti/dissacranti. Tuttavia, e ovviamente, a quello si aggiunge un altro strato, che si addentra nella sostanza della realtà e del raccontare (sempre che siano due cose distinte o distinguibili), che si frammenta nelle angolazioni necessarie per muoversi con andatura più grave e intensa. Ci mancherebbe che non fosse così, eppure mi incuriosisce questa parziale continuità tra le sue versioni di lui. Un aspetto che a dire il vero si poteva percepire già nei suoi precedenti lavori, tanto nel romanzo Come in una ballata di Tom Petty che nella biografia romanzata di Kaiser. Ecco, anche qui: a queste due forme narrative se ne aggiunge oggi una terza, ovvero il difficile cimento con la raccolta di racconti. Come se Patrone nel farsi scrittore non smettesse di, come dire, mettersi alla prova per misurarsi, per cercarsi una dimensione, una collocazione. I racconti di Atlante della nostalgia subiscono in questo senso un’invasione di campo costante. Non è chiaro quanto, ma il dato autobiografico preme ai bordi, filtra in maniera anche evidente (vedi i frequenti riferimenti alla Germania, dove Patrone in effetti vive e lavora da vent’anni), finché non prende addirittura le redini, specie nell’ultima parte, quando ad emergere è un protagonista ricorrente chiamato – guarda un po’ – Marco. È un gioco, in un certo senso, condotto con la padronanza di chi dal giocattolo in questione è piuttosto ossessionato (la lettura, e la scrittura in quanto suo rovescio) ma evita di farsene soggiogare, e perciò resta capace di mantenere uno sguardo terzo sul proprio stesso scrivere, alimentando un dialogo col lettore fatto di ammiccamenti, di understatement asprigno, di luoghi comuni narrativi sbuzzati, il tutto sul filo di una prima persona che non fa sconti innanzitutto a se stessa. Una possibile chiave di lettura viene fornita da Patrone stesso nell’introduzione: questi racconti sono tutti veri (o tutti inventati) allo stesso modo, e parlano tutti di me, e del mondo, allo stesso modo. Nient’altro. Non credetemi.
Sono andato a rileggerla, l’introduzione, dopo avere sfogliato l’ultima pagina (in tutto sono 117), perché a dire il vero me l’ero lasciata scivolare addosso, insomma non l’avevo capita e neppure avevo voglia di capirla: mai stato convinto dell’utilità delle introduzioni nei libri di narrativa (meglio, casomai, le postfazioni, ma non divaghiamo). Sono andato a rileggerla, dicevo, perché mi era rimasto un senso di spaesamento, il bip interiore da excusatio non petita: infatti a quel punto mi è sembrata più chiara, mi è parso di trovarci davvero una chiave, forse anche due o tre. C’entra anche il titolo, Atlante della nostalgia: una raccolta di mappe, una rappresentazione di (una relazione tra) luoghi, e un dispositivo di recupero del tempo in quanto memoria e ricordo. Questo rapporto tra luoghi e tempo è costante, la narrazione è interno che produce l’esterno, spazio che esiste solo in quanto tempo spremuto dal ricordo/memoria. E qui si incontra, da quel che ho potuto capire, il punto della faccenda: nello srotolarsi del racconto (nostalgico) ad affiorare è l’attrito tra esterno e interno, tra luoghi e ruolo, tra organizzazione spaziale della civiltà e individuo mediato dall’appartenenza al consesso civile. Pur incarnandosi in diversi “io” – ma insistendo come già detto su un piuttosto definito “Marco” nella parte finale – il narratore di questi racconti è riconoscibile come un aggregato delle scorie prodotte dal contrasto tra essere e dover essere, tra il maschio inquadrato nel profilo del borghese medio, culturalmente, tecnologicamente ed economicamente avanzato, sottoposto a una rete fitta (un setaccio) di convenzioni più o meno esplicite/rigide, e quell’individuo che non è stato (messo) in grado di affiorare e consolidarsi, di essere. Un conflitto di cui l’alcolismo è una manifestazione, così come l’insofferenza, un’insofferenza batterica e vischiosa (per i riti, per i percorsi mentali, per i codici del sesso e dell’affetto, anche per la propria stessa lucidità). Un’insofferenza che è sofferenza differita, o metabolizzata. E cosa dovevo fare io? Sbuffare, lavorare, essere normale, e guardare il mio passato con il sorriso un po’ stolido di chi, per la prima volta, riesce davvero a vedersi dall’esterno e pensare “No, io non soffro più”. C’è quindi in questi racconti uno scrutare, non oscuro ma opaco, nel cuore dello stare qui, ora, sul crinale di giorni immobili, una specie di distopia del presente assente in quanto step successivo di un passato irrisolto, di tutte quelle parentesi solo apparentemente chiuse, o aperte con un’indolenza comunque irrequieta, comunque mai indifferente. Ci senti anche una specie di leggerezza che un po’ fa paura.
Il link alla recensione su Pensierosecondario: https://bit.ly/37F94H7