Contro la gioventù
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E così, dopo molti anni ha deciso di raccontare cosa diavolo gli era successo a Praga. Quando si guarda indietro la prima cosa che ricorda è Ludmila Štěpánka, la sua padrona di casa. Fu lì che tutto ebbe inizio. Mentre si avvicinava a quello che sarebbe stato il suo alloggio per i nove mesi che visse in città, Eugen Salmann si ripeteva che non avrebbe mai abitato così lontano dal centro, e come se non bastasse su una collina dalla quale si scorgeva l’autostrada. Pochi minuti dopo aver parlato con la signora Štěpánka, tuttavia, aveva affittato la stanza: la casa degli Štěpánek gli era piaciuta più di quanto avesse previsto, in particolare per la sua ampiezza e per l’indipendenza che gli avrebbe offerto. I proprietari infatti non affittavano solamente una stanza, come si annunciava nel ritaglio di giornale che aveva letto, bensì l’intero appartamento al piano di sopra: una camera da letto, un bagno, un accogliente e grazioso salottino e un cucinotto. Dopo aver visto tutto questo, la sua idea di non vivere lontano dal centro svanì, ed Eugen decise d’installarsi immediatamente.
Aprì le tende e si rallegrò di vedere l’insieme di case al quale apparteneva la sua, lo stesso insieme che pochi minuti prima, quando lo aveva visto dalla strada, lo aveva inorridito. Subito dopo osservò la scrivania d’angolo e s’immaginò alle prese con il suo primo romanzo. Era stato questo a convincerlo ad accettare le condizioni, a pagare il primo mese d’affitto e la caparra. Credeva che la padrona di casa gli avrebbe stretto la mano per suggellare simbolicamente il patto appena formalizzato, ma non accadde.
«Vuole un’arancia?», chiese lei, mentre gliene offriva una particolarmente brillante. Per non deluderla Eugen la prese e se la mise in tasca. «Un’altra?», chiese lei, e gliene offrì una seconda, grande e luccicante come la prima. «No, no!», rispose lui.
La mano della padrona di casa però era già tesa, e davanti alla sua insistenza Eugen non poté rifiutare. Mise in tasca anche la seconda arancia e guardò Ludmila Štěpánka con sincero interesse. Doveva avere una sessantina d’anni, sessantacinque al massimo. Indossava un grembiule a strisce, e quando rideva lasciava intravedere i suoi denti giallissimi.
La questione delle arance ha la sua importanza, dal momento che fino a quando fu suo inquilino la donna gliene lasciò puntualmente un cesto sull’ingresso. Non contenta di quel gesto di ospitalità, ogni volta che il giovane bussava alla porta dell’appartamento al pianoterra, per pagare l’affitto o per qualsiasi altro motivo, la Štěpánka – come lui prese a chiamarla – gliene offriva una. Eugen non ci mise molto a capire che si trovava di fronte a un’autentica fanatica delle arance, e accettò tutte quelle che gli offriva, anche se di rado le mangiava.
L’accordo fu puramente economico, non firmarono alcun contratto. Dopo avergli assicurato che si fidava ciecamente di lui, la donna gli consegnò le chiavi di casa, troppo grandi per riporle comodamente nella tasca dei pantaloni. È possibile che sia stato in quel momento, o forse un po’ prima, quando gli aveva dato le prime arance, che lo spirito di Franz Kafka abbia scelto il protagonista di questa vicenda per discendere su di lui.
Ludmila Štěpánka gli sorrise, lasciando intravedere ancora una volta la sua dentatura malmessa, insieme a qualcosa che non era semplice cordialità, tantomeno ospitalità, si trattava piuttosto di… compassione? Sì, compassione o qualcosa del genere. Eugen, fino a quel momento disinvolto e gioviale, cominciò a sentirsi male, malissimo. Dovette sedersi. L’aria cominciò a mancargli.
Non era ancora mezzogiorno, ma all’improvviso si fece scuro, come se la luce esterna potesse spegnersi con un interruttore. Štěpánka intuì che il suo inquilino aveva bisogno di tranquillità e chiese il permesso di ritirarsi. Finalmente solo, Eugen aprì di nuovo le tende e guardò dalla finestra. Le automobili sfrecciavano a grande velocità sull’autostrada. Si sentiva estremamente avvilito. L’idea di dover tornare in albergo per prendere le sue valigie, chiamare un taxi e ritornare nel quartiere periferico in cui aveva deciso di vivere gli sembrò richiedesse uno sforzo formidabile. Stava sudando.
La padrona di casa bussò alla porta ed entrò con un cesto di arance molto brillanti, che appoggiò su una mensola del cucinotto. Prima di ritirarsi gli disse che per pochi soldi avrebbe potuto occuparsi anche del suo bucato, se lo desiderava. Quando Eugen mosse leggermente la testa, cosa che lei interpretò come un segno di assenso, si avvicinò e con irriguardosa confidenza gli arruffò i capelli. Sembrava molto contenta che quel giovane berlinese avesse accettato le condizioni dell’affitto.
Eugen mantenne lo sguardo fisso sull’autostrada, dove le automobili continuavano a sfrecciare a grande velocità. Non c’è bisogno di dire che il colpevole di tutto ciò che gli stava capitando era, né più né meno, che Franz Kafka.