“Floridiana” su Pangea
Quando gli Dei vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere. Dialogo con Emanuele Pettener
Floridiana di Emanuele Pettener, edito da Arkadia, è arrivato nelle librerie poco prima dell’estate ma è tutt’altro rispetto a quel che s’intende comunemente per “lettura estiva”. Si tratta piuttosto di un romanzo che racconta con arguzia rara, scrittura godibile ma sontuosa – figlia dei grandi narratori americani, da Roth a DeLillo – e raffinata perizia psicologica l’angoscia di vivere tipica dei nostri tempi, tra ricerca narcisistica di approvazione, anelito all’eterna giovinezza, fughe dal conformismo che finiscono inevitabilmente per riportare ad esso.
Protagonista è Tom, italoamericano ormai settantenne, dentista in pensione che vive in Florida insieme alla moglie April, per cui prova ancora un sincero trasporto sensuale ma da cui non si sente amato fino in fondo. Il lavoro lo ha reso più che benestante, ma rimpiange il vecchio sogno non realizzato di diventare scrittore. Un personaggio vitale e contraddittorio, profondamente umano, di cui parliamo, insieme a molto altro, con il suo autore.
Come fa a essere così bella? Ha sessantanove anni, Cristo! Sì, le rughe, i fili bianchi, la pelle ispessita e tutto il resto. Ma la ragazzetta che mi ha stregato cinquant’anni fa è ancora là, eccessivamente visibile, indomabile, sensuale.
Così Tom, il tuo protagonista, parla di sua moglie April. Sei consapevole che sono le parole che ogni donna vorrebbe sentirsi dire? E credi davvero che la passione possa resistere al tempo, o è solo un modo per sedurre le lettrici?
Naturalmente la passione può resistere al tempo. E naturalmente è un modo per sedurre le lettrici.
«Eran due vecchie befane, Tom.»
«Va be’, era la prima sera, chi ti aspettavi, Brigitte Bardot?»
«Perché no? Anche Brigitte Bardot è una vecchia befana, ormai.»
Hai appena parlato come l’uomo ideale, e poche pagine dopo ti scopriamo politicamente scorretto! Ed è proprio il gioco di contrasti, a mio parere, tra i maggiori pregi di questo libro, come se fossi un pittore che usa tutta la tavolozza, o un compositore abile nel variare il ritmo. La critica al politically correct emerge in più punti del romanzo, addirittura a un certo punto parli di “quartiere negro”, ma non lo sai che non si può più usare, la N word?
Vagheggio da tempo di scrivere un saggio, “In difesa della parola negro”. Parola meravigliosa, carica di suggestioni e sensazioni: bellezza e dolore, Africa e Louisiana, campi di piantagioni e blues. Ognuno vi avverte subito qualcosa, uno spettro di immagini, nessuno può restare indifferente. Se scrivo quartiere negro produco immediatamente un’atmosfera, una visione. Se scrivo quartiere di colore o quartiere afroamericano mi limito a fornire un’informazione (peraltro piuttosto superficiale, specie la seconda, ma andremmo per le lunghe). Inoltre, sento proprio questi aggettivi discriminatori, non l’altro: sono fasulli, sono piccole e goffe menzogne (anzi, mai come in questo caso mi sembra perfetto dire white lies), fragili e improvvisate traduzioni di quello che il nostro cervello senza filtri ci ha trasmesso in primo luogo: “quartiere negro”.
Poi, per carità, se ormai la parola s’è evoluta (o involuta) e ha acquistato un connotato razzista, vi posso rinunciare nella lingua parlata, nello scambio quotidiano; del resto quando parlo rinuncio a un sacco di parole – una più, una meno. Ma non posso rinunciarvi quando scrivo. La scrittura è il campo della libertà totale, dove voglio e devo essere libero senza nessun tipo di condizionamenti: una delle sfide più ardue (e quindi uno dei massimi piaceri) della scrittura sta nel trovare la parola corrispondente, la parola esatta.
Ho bisogno di tutto il mio vocabolario, se posso anche di quelli stranieri (penso a Nabokov). Togliermi una parola equivale a ordinare a un pittore: guarda, puoi usare il rosso bordeaux e il rosso scarlatto, ma assolutamente non puoi usare il rosso carminio. Ma io ho bisogno di tutti i miei rossi! E in fondo posso sempre dire che quella parola l’ha usata il narratore, non io.
Quand’era piccolo, giocava con le Barbie delle sorelle e chiedeva sempre per favore. Sorrideva sempre e non urlava mai. Era un tesoro ed ero abbastanza convinto che fosse gay. La cosa non mi turbava (basta ridacchiare là in fondo!). D’accordo, se fosse diventato una di quelle checche isteriche che strepitano e gongolano per i vestiti delle star sul red carpet, beh, un po’ mi sarebbero girate le balle. Ma ero sicuro che sarebbe diventato un bel gay, gentile e virile, sufficientemente alto e muscoloso per schiacciare con un pugno sul naso chiunque si fosse permesso di disprezzarlo o ghettizzarlo.
Scusa se riporto per intero questo lungo stralcio, ma trovo molto bello questo modo di esprimere le preoccupazioni di un padre riguardo a un figlio (forse) gay, al di là di tutte le ideologie. Sai che anche la parola gay, pur accettata, non è più considerata del tutto corretta, rispetto ad altri termini come “persona omosessuale”?
La parola “gay” mi affascina. La trovo spesso nei romanzi della mia amata Agatha Christie e del mio amato Maugham (che se avesse saputo l’evoluzione di significato della parola l’avrebbe usata con più parsimonia, essendo rimasto in the closet tutta la sua vita). “Gay” – gaio, leggero, lieto, gioioso. Eppure la Storia ci racconta quanta sofferenza sia costata, e costi ancora, essere omosessuali. Un mio carissimo amico ha fatto coming out a 70 anni dopo una vita di dolore interiore inimmaginabile, cominciata quando da ragazzino in Pennsylvania lo convinsero che “quelli come lui andavano all’inferno”. Per questo motivo, da cultore del linguaggio, è riuscito finalmente a dire: “sono omosessuale” ma è troppo dolorosamente ironico, per lui, riuscire a dire “I am gay”.
Era la massa informe degli ex hippy e degli ex Make love not war a incutermi timore, i progressisti dalla coscienza immacolata e le mani sporche di sangue, perché son più sottili, meno evidenti, più pericolosi, e nemmeno loro sanno quanto sono ipocriti e cattivi.
Sbaglio o è ben percepibile nel tuo romanzo la stoccata a un progressismo più formale che altro?
Anestetizzare il linguaggio non fa guarire dalla malattia. Ero appena arrivato qui in America e seguivo un corso Ph.D di retorica. Ci siamo messi a discutere della parola N. Ero basito: perché non la pronunciavamo per intero? Non potevamo dire quella parola nemmeno quando la parola era l’oggetto del nostro discorso? La stavamo sottoponendo al microscopio, ma sotto la lente non c’era nulla, the N word si poteva studiare, analizzare, vituperare – ma non pronunciare, ci avrebbe bruciato la lingua. (Nota che nemmeno io la uso qui: non vorrei mi licenziassero).
April e io sappiamo poco dei nostri amori giovanili, pochissimo delle nostre malinconie e dei nostri imbarazzi, quasi niente dei nostri sogni falliti, nulla dei nostri rimpianti.
Il rapporto tra Tom ed April è un trattato di psicologia dei sentimenti, sempre ammesso che esista e abbia senso questo tipo di disciplina. Il loro legame è per certi versi invidiabile, eppure Tom sembra soffrire di un certo distacco tra loro, una sorta di non conoscersi completamente. Credi che sia un bene non mostrarsi del tutto, risparmiarsi a vicenda il proprio peggio?
Chi lo sa. Ma conservare una certa dose di mistero e irraggiungibilità agli occhi dell’altro suppongo non sia cosa malvagia in un amore.
Le stavo leggendo il mio ultimo racconto e, a metà della scena cruciale, lei mi domanda ex abrupto: «Ti sei ricordato i fagiolini?».
Quello che più di tutto Tom rimprovera ad April, è non dare abbastanza importanza alle sue ambizioni letterarie. Soltanto narcisismo da aspirante scrittore, o c’è qualcosa di più? Tom è un dentista affermato e benestante, ha una bella famiglia con ben quattro figli, eppure il suo sogno non realizzato di scrivere gli sembra l’unico che avrebbe dato realmente senso a tutta la sua vita. Però nel corso della storia abbiamo spesso l’impressine che sia Tom stesso ad auto boicottarsi, a non impegnarsi abbastanza in queste aspirazioni, incolpando però il lavoro, i figli, April. È così, o più semplicemente Tom non è uno scrittore, non ne ha la passione né il talento?
Non lo so, onestamente. Mi piace, sia nella vita che nella scrittura, investigare in quel guazzabuglio che è il nostro cuore; non inseguo però soluzioni finali, anche perché il guazzabuglio non lo consente. Tuttavia mi vengono in mente le parole di Teresa D’Avila parafrasate da Capote che gli ispirarono il titolo del suo bellissimo romanzo incompiuto: “Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte”. E poi Oscar Wilde, An Ideal Husband, 1895: “When the Gods wish to punish us, they answer our prayers”, Quando gli Dei vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere.
Gli artisti mediocri, a meno che non siano consapevoli della propria mediocrità (il che li conduce a smettere di produrre arte e li trasforma in critici) avvertono come geniali solo coloro che gli sono affini, cioè altri mediocri, oltre a coloro che sono stati designati ufficialmente geni da un’unanime collettività di mediocri, e quindi riconosciuti da un’unanime umanità di mediocri.
Questo pensiero di Tom è analogo a quel che molti oggi pensano e dicono del panorama letterario italiano. È anche il tuo pensiero?
Veramente credo sia naturale in qualsiasi tempo e in qualsiasi Paese, persino scontato. L’artista mediocre se la cava meglio del genio semplicemente perché il primo ha una visione in cui quasi tutti possono riconoscersi, il secondo per natura ha una visione unicamente sua, eccezionale, e quindi incomprensibile ai più. Quanto al panorama attuale della letteratura italiana, sfuggo dai giudizi complessivi – né del resto avrei la conoscenza sufficiente per formularne uno. Noto semmai una tendenza: cavalcare l’attualità. Scrivere romanzi (o cronache travestite da romanzi) su vicende recentissime se non contemporanee, col cadavere ancora caldo. Pasticciare tra letteratura e giornalismo e biografia. Essendo per me la letteratura il regno dell’immaginazione più viva ed esuberante, dove la realtà si trasforma e diventa poesia, dove l’informe quotidiano acquisisce forma ed elettricità, e il fango si fa oro – trovo questi memoriali lugubri e fatiscenti. Soprattutto, e qui torniamo al discorso della mediocrità, spesso la lingua si abbassa alla materia: non c’è invenzione, non c’è follia. Che m’importa leggere della volgarità dei salotti romani, specie se questa volgarità mi viene proposta in quanto tale, descritta volgarmente, volgarità su volgarità? Ah, e a proposito di volgarità: io capisco che giornali e tivù preparino i coccodrilli, per esigenza di cronaca, ma scrittori ed editori? Muore uno e zaff, il giorno dopo sugli scaffali hai il malloppo di 300 pagine sul morto; capisco che tutti si debba mangiare, ma resta un senso di pessimo gusto e voglia di fuggire dalla libreria e prendere una boccata d’aria fresca.
Che beffa: avevo un indiscutibile talento naturale nel far soldi, un talento che mi riconoscevano e m’invidiavano tutti, ma quello che pretendevo d’avere era un discutibile talento letterario, che non mi riconosceva nessuno.
Ma secondo te, perché vogliamo diventare tutti scrittori, proprio oggi che (almeno così si dice) l’editoria è in crisi? O forse è in crisi proprio per questo? E per diventare scrittori, bisogna dedicarsi totalmente al proprio sogno? Tu sembri aver trovato un buon equilibrio: hai un buon lavoro da insegnante (per quanto, attinente alla letteratura molto più di quello di Tom), una bella famiglia, e riesci anche a sfornare gioielli come questo. Come fai?
Che si voglia diventare tutti scrittori è forse un’impressione degli aspiranti scrittori stessi, che si frequentano solo fra di loro. L’editoria è in crisi, suppongo, perché anch’io, che pure amo leggere, molte sere preferisco stravaccarmi sul divano a guardarmi Il metodo Kominsky su Netflix o una compilation di finte di Ronaldinho su Youtube. Credo che la scrittura, qualsiasi sia il genere a cui intendiamo dedicarci e lo scopo che ci prefiggiamo, esiga una dose più o meno ampia di talento, una conoscenza accurata dei ferri del mestiere e di qualche trucchetto, e molta, molta disciplina. Senza capacità di concentrazione, non si va da nessuna parte. Per me lettura e scrittura sono possibili solo nell’otium petrarchesco. Solo il dono divino di una vita famigliare fino ad oggi serena e la tranquillità economico/emotiva di un lavoro altrettanto sereno mi permettono, quando ne ho voglia, di dedicarmi a uno dei piaceri più elettrizzanti e profondi io conosca: comporre e scomporre immagini e frasi, cercare un effetto luminoso.
«Ma come fai anche solo a pensare di andare in vacanza, divertirti, fare quello che avresti fatto prima? Non capisci che nulla sarà come prima? Che questa è una guerra?»
«Ma no. Le nostre vite, la mia e la tua intendo, sarebbero cambiate solo se nostra figlia fosse stata in quelle Torri. Non c’era, e non c’era nessuno dei nostri figli, nessuno di coloro che amiamo.»
Un altro tema ricorrente del libro è il rapporto tra la propria storia personale e la Storia. In questo dialogo con April, all’indomani dell’11 settembre, Tom fa la parte del cinico, e come spesso accade ai cinici, dice il vero. Oggi, nel mondo iperconnesso, siamo sempre più chiamati a mostrare empatia per tutte le tragedie che avvengono vicino o lontano da noi, per lo più secondo la gerarchia d’importanza che ci impongono i media. Capita poi spesso, anche tra persone comuni, di rimproverarsi a vicenda di preoccuparsi o commuoversi per questo e non per quello, o comunque di non mostrarsi abbastanza coinvolti dai mali del mondo. Ma in questo grande mercato dell’empatia, stiamo diventando davvero più buoni o solo più confusi e più ipocriti?
Siamo tutti pateticamente in piedi sulla nostra cassettina a esporre le nostre verità sul mondo, ovvero a mendicare attenzione per noi stessi. Per il resto, l’orgasmo da elogio funebre ad ogni morte di celebrità e l’arrapamento livoroso per la morte di un nemico politico sono sovente le due facce dello stesso becchino.
L’Italia era un mio vecchio desiderio. L’Italia forse è il desiderio di tutti quelli che non ci hanno mai abitato.
Tom sogna da tutta la vita di andare a Venezia, tu sei nato a Mestre, ma da anni vivi in Florida, insegnando Lingua e Letteratura italiana alla Florida Atlantic University. Cosa rimpiangi e non rimpiangi dell’Italia? E come è percepita oggi l’Italia dove vivi tu? A un certo punto nel libro ne parli anche come di una “terra arcaica”…
Everybody wants to be Italian, qui in America. Non io. Io voglio tropicalizzarmi sempre più. Anzi, la tropicalizzazione dell’individuo mi sembra l’unica ancora di salvezza. Starmene tutto il giorno a pescare da un molo arso di sole, solo, il mio cappello di paglia in testa e i jeans al ginocchio e i piedi nudi, il verde della natura immersa in un concerto di cicale attorno a me, il blu limpido di acqua e cielo davanti.
Nel romanzo spesso citi altri scrittori. April ha sul comò Stoner di John Williams, Tom cita tra le sue letture preferite Capote, Nabokov, Dino Buzzati, Boccaccio e Mc Grath, una “cilena famosa” di cui però gli sfugge il nome (a proposito, chi è? La Allende?) mentre fa lo scalpo a Carver “davvero non capisco perché sia così famoso, è un chiacchiericcio sconnesso e fumoso fra ubriachi…” e a Garcia Marquez “anche lui non è male, salvo naturalmente quel mattone sui cent’anni di turpitudine…”.
I tuoi modelli letterari corrispondono a quelli di Tom? E chi sono i tuoi scrittori preferiti, italiani e stranieri?
Mi piacciono i racconti brevi o lunghi di Garcia Marquez, meno i romanzi. Di Carver non ho una conoscenza tale per esprimere un’impressione, sui suoi emuli un’opinione ce l’ho. Ammiro gli scrittori menzionati da Tom (sì, la cilena famosa è l’Allende). Agatha Christie, Raymond Chandler, Francis Scott Fitzgerald, William Somerset Maugham, Oscar Wilde, Truman Capote, John Fante e Vladimir Nabokov sono i miei beniamini a cui torno sempre. Ma per me una delle prove narrative più meravigliose degli ultimi anni è stata la serie televisiva Downton Abbey, scritta da Julian Fellowes, per altro ottimo romanziere. Dietro certe serie televisive e sitcom ci sono scrittori di enorme talento: artisti autentici. In Italia, fra i classici, D’Annunzio e Svevo. Fra i contemporanei, Paolo Maurensig. Ho poi un debole per gli scrittori siciliani. Gli scrittori italiani sono italiani, ma gli scrittori siciliani sono europei. Mi sembra abbiano una marcia in più, un respiro più ampio, un’immaginazione, specie linguistica, più accesa. Sembra riescano a vedere il mondo e l’umano con occhi diversi, con lenti speciali che posseggono solo loro. Anche fra i meno conosciuti, mi capita di trovare una letteratura vibrante – anni fa un amico di Bagheria mi regalò un romanzo, I porno zombi, di Maurizio Padovano, pubblicato da Di Girolamo editore, e ricordo ancora come rimasi incantato dalla potenza e dalla sapienza della narrazione, dalla genialità della lingua. Poi Vladimir di Prima: mentre Padovano non so nemmeno chi sia, Vladimir è mio amico, e quindi non dovrei menzionarlo, ma anche il suo peggior nemico dovrebbe ammettere lo splendore siculo della sua prosa, un’inventività linguistica rutilante, gioiosa, picassiana.
Si parla spesso del bambino che è rimasto in noi. Ma non c’è nessun bambino. C’è invece un ragazzo d’età fra i venti e trent’anni, stupefatto d’averne all’improvviso quaranta, cinquanta, sessanta… ecco, quella è l’età in cui si ferma e si forma la nostra anima, o comunque vogliate chiamare l’intelligenza che abbiamo di noi stessi e del mondo.
Cosa diresti oggi al ragazzo tra i venti e trent’anni rimasto in te? E all’uomo di… anta anni (portati splendidamente) che vedi nello specchio?
Al ragazzo direi e dico spesso una frase in veneto che lessi una volta sulla pagina Facebook di Lino Toffolo: se ti xe mona ma ti sa de essar mona, ti xe un po’ meno mona. All’uomo: sei su Sunset Boulevard. Anzi Sunset BoulEMArd. Tanto vale godersela.
Viviana Viviani
Il link all’intervista su Pangea: https://bit.ly/3Dxbfaj