Il doppio segreto di Claudio B.
PROLOGO
Un solitario settantenne cammina per la strada con le mani dietro la schiena, in questo pomeriggio d’estate in cui il Sole sembra attenuare la sua inclemenza. Si dirige verso il centro del paese, lungo l’ampio marciapiede colmo di sporgenze di pietra irregolare. È la tipica superficie che si vorrebbe spacciare per rustica, ma che in realtà non è un lascito dei tempi lontani, bensì il risultato di un disgraziato intervento di restauro, un vero supplizio per i pedoni con caviglie deboli e poveri genitori che spingono i passeggini dei loro bebè, stremati da tanto trambusto.
L’anziano procede di buona lena, all’ombra, sotto il pergolato naturale di vecchi e frondosi platani. Le sue gambe robuste testimoniano che ha sempre camminato parecchio. Di fronte a lui c’è una coppia che raggiungerà in men che non si dica. Mentre li sorpassa da sinistra, guarda la donna, sorridente, e le dice: «Ma che coppietta incantevole!»
Malgrado il paese non sia grande, non è facile conoscere ogni suo abitante.
«Buonasera», dicono insieme i due, anche loro anziani, di età simile a quella del settantenne.
«È un piacere vedervi, così in là con gli anni, presi per mano.» I due si mostrano sorpresi e guardano lo sfrontato settantenne con espressione allegra. Non lo conoscono, ma dall’aspetto sembra inoffensivo: vecchio, con un po’ di pancia, capelli radi, barba bianca e occhi chiari, naso pronunciato e sguardo socievole. «Non immaginate quanto v’invidio», aggiunge sincronizzando il suo passo con il loro, invitandoli a intavolare una conversazione. «Vivete da queste parti, a Cicciano?»
«Sì, e lei?», chiede la donna, che procede in mezzo ai due uomini.
«Anch’io, all’uscita del paese, in direzione Napoli. Non capita tutti i giorni di vedere una così bella coppietta. Cosa ci volete fare, sono un sentimentale. E come si chiamano i membri di questo matrimonio da favola?»
«Io mi chiamo Francesca, mio marito Ettore.»
«Io sono Claudio, per servirvi.»
Ettore lo guarda sollevando le sopracciglia, con quello che potrebbe essere un segno di approvazione.
«Ci si sente davvero risollevati davanti a un’immagine come la vostra. Si può ancora essere romantici alla nostra età… e soprattutto non bisogna vergognarsi di dimostrare che ci si vuole bene. È davvero un grande piacere.»
I tre avanzano verso lo spiazzo del giardino, tranquillamente, come se la loro amicizia non avesse tre minuti, ma qualche decennio.
«Lo facciamo senza accorgercene», dice Francesca. «Ci viene naturale, è l’abitudine.»
Certamente, dai vestiti che indossano, non si direbbe che la romantica coppietta sia un esempio di emancipata disinvoltura cresciuta in tempi di amore libero e controcultura. Ettore e Francesca offrono l’immagine imperitura di due anziani semplici, tradizionali e devoti. Vestono con la classica austerità della gente di paese, che s’immagina sempre essersi guadagnata da vivere nei campi.
«Lei, Ettore, che lavoro faceva? Sarà oramai in pensione.»
«Avevo una ferramenta a Napoli», risponde lui.
«Ma che meraviglia!», esclama Claudio. «Non c’è posto migliore per passare dei bei momenti. Lavorare in una ferramenta non è solo utile, il che dà un senso alla vita, vi si gode anche di un ambiente interessante, ci sono così tante cose in una ferramenta! Invenzioni straordinarie e una gran quantità di attrezzi. Migliaia di sofisticatissime cianfrusaglie. E poi la bellezza, oh, quanta bellezza! Io restavo imbambolato davanti agli innumerevoli tipi di serratura esposti nella vetrina della ferramenta di piazza Cavour. Quanto ci mancano quelle vecchie ferramenta di quartiere! Ora vanno tutti da Leroy Merlin. Qui a Cicciano non ce n’è rimasta neanche una.»
«Vive a Cicciano da molto tempo?»
«Da una ventina d’anni», risponde Claudio.
«E che lavoro faceva?»
«Io per la verità continuo a lavorare. Sono un docente universitario. Per il momento, nessuno me lo impedisce. Insegno Archeologia nella Facoltà di Storia. A proposito, v’interesserebbe assistere a una mia conferenza, lunedì prossimo? Devo parlare dell’amore e del matrimonio davanti agli studenti di una scuola, e credo proprio che vi citerò come esempio. Racconterò questo nostro incontro.»
«Ci mancherebbe altro, verremo con molto piacere», risponde Francesca.
La chiesa di Sant’Anna è ad appena cinque minuti, e Claudio domanda: «Non starete andando in chiesa, per caso?»
«Sì, andiamo ad assistere a un funerale», risponde Francesca.
«Vengo con voi. Che gliene pare, Ettore, se prendo la mano di sua moglie? Lei accetta, Francesca? Così procederemo mano nella mano, tutti e tre, fino alla chiesa.»
«D’accordo», dice Francesca. «Nessun problema, vero Ettore?»
«Certo, certo, procediamo», acconsente lui.
I tre settantenni incedono lungo via Antonio de Luca, con passo leggero, ringiovaniti, imponendosi al leggero squilibrio causato dalle sei gambe improvvisamente sincronizzate, in direzione della parrocchia di Sant’Anna.
Così si svolse la scena, o, almeno, fu così che Claudio Bersani la raccontò quando fu a casa.
«Non ti hanno chiesto se eri vedovo?», gli chiede Melina, sua moglie.
«No, devono averlo dato per scontato.»
«Sei uno svergognato…»
«Credi abbia sbagliato a cercare di cingere Francesca ai fianchi?»
«Devi smetterla con queste cose!», lo rimprovera Melina.
Sta svuotando la lavastoviglie mentre Claudio sciacqua una pera prima di addentarla.
«Credi sul serio che l’abbia fatto?»
«Credo che ne saresti perfettamente capace. Poi non ti devi meravigliare se ti prendono per matto.»
«Come sarebbe? Chi mi prende per matto?»
«Il bruno t’ha chiamato così davanti ai tuoi nipoti, l’altro giorno. “Dov’è quel matto di vostro nonno? Non l’ho visto in giro”», gli ha detto.
Il bruno è il nuovo fruttivendolo di Cicciano. Viene da una famiglia marocchina, ma lui è nato in Italia. Bersani va spesso al suo negozio.
Claudio poggia la pera sul tavolo e, senza asciugarsi le mani, le piazza sui fianchi di Melina, da dietro.
«Lasciami!», grida la donna.
Seduto in cucina, Claudio Bersani addenta la pera con un morso vigoroso.