“La bambina dagli occhi d’oliva” su L’intellettuale Dissidente
L’incosapevole ferocia della gente perbene
Esce La “bambina dagli occhi d’oliva”, romanzo struggente e originalissimo che lo scrittore Davide Grittani ha dedicato all’indimenticata leader dei Cranbierries, Dolores O’Riordan. Ne pubblichiamo alcuni brani scelti direttamente dall’autore: i ritratti dei tre protagonisti Sandro, sua madre Ada e la misteriosa Angelica
Come scritto da uno dei fondatori del Gruppo 63, Furio Colombo, in uno dei blurb che stanno accompagnando l’uscita del libro, La bambina dagli occhi d’oliva «entra nella narrativa contemporanea come un libro diverso che resta diverso, e non cerca protezione nelle abitudini tradizionali del romanzo italiano. Ovvero non è romanzesco. Per questo merita spazio, e non credo che gli mancherà». Non un triller e neanche un noir, così come non può essere definito giallo – al contrario, piuttosto pronunciata l’avversione dell’autore contro la deriva macchiettista del genere – ma nemmeno dramma contemporaneo. Il nuovo romanzo di Davide Grittani è, piuttosto, uno spietato spaccato sull’inconsapevole ferocia della gente perbene, una confessione a cuore aperto di quasi duecento pagine in cui la lingua (ricercata, «a tratti davvero molto nobile» secondo la lettura di Andrea Carraro) si mette al servizio di una trama intelligente (in cui «funziona praticamente tutto», da una recensione di Livio Romano) e di una storia feroce, attualissima e dannata. I delitti nei confronti dell’infanzia, l’assenza di scrupoli e responsabilità verso l’adolescenza, la diserzione dei padri (e delle madri) rispetto al debito contratto con chi li guardava come esempi, come maestri. Intellettuale dissidente ha chiesto a Grittani di selezionare tre brani del romanzo, per descrivere – per quanto possibile – i tratti letterari dei protagonisti: lui, Sandro Tanzi, debole, indolente, travolto dal passato; sua madre, Adelaide Caracciolo, che quel passato ha provato a seppellirlo sotto la carta da parati; e lei, Angelica Capone, che di quella memoria infame è testimonianza viva, la muffa che ogni tanto risorge per ricordarci che siamo fatti soprattutto di errori. Ve li proponiamo in sequenza, rimandando la lettura de La bambina dagli occhi d’oliva (Arkadia Editore, collana SideKar diretta da Mariela e Ivana Peritore e Patrizio Zurru) agli amanti dei romanzi veri, autentici, che ancora oggi – per fortuna – si scrivono. La bambina dagli occhi d’oliva è dedicato a Dolores O’Riordan, indimenticata leader dei Cranberries, che il 6 settembre 2021 avrebbe compiuto 50 anni. Il perché lo scoprirete leggendo questo libro «incantevole, ipnotico» come scritto da Roberto Pazzi.
LUI, Sandro Tanzi
(…) Venti secondi, trenta al massimo. In questa lama di tempo devi capire chi hai di fronte. Cosa l’ha portato da te. Cos’è venuto a fare. Che vuole, veramente. Come i sacerdoti dietro la grata del confessionale. Le prostitute sul ciglio della strada. I medici a colloquio con i parenti dei pazienti. Pochi istanti, entro cui devi stabilire se sopravvivrai a quell’incontro. Sono diventato un certificatore di deformazioni. Passo le giornate a guardare mostri che trascinano enormi masse tumorali, eruzioni polimorfe sfuggite al controllo del corpo, cicatrici che hanno deturpato aspetto, parole e comportamenti di chi conduceva una vita normale e all’improvviso è imploso. Perché spesso il brivido del rischio è solo un pretesto. Nella testa di chi frequenta i centri scommesse si nasconde il desiderio di trasmetterti un po’ di quel disagio, di contagiarti quella febbre subdola e pustolosa da cui non si guarisce. E quando ne incontri uno così, animato da quella ossessione, in pochi secondi devi capire se obbedirà all’istinto o lo sopprimerà nelle slot machine. Non puoi sbagliare, sei l’ultima uscita prima della fine della strada. Se li tradisci anche tu, con qualche eccesso di normalità, qualche licenza che sfugge al lessico muscolare di questi ambienti, finisce che reagiscono male e non sai quello che potrebbe succedere. Ma non puoi nemmeno dargli troppo spago, ascoltarli all’infinito, mostrarti inadeguato al ruolo che hai scelto. Allora assumi un atteggiamento prefettizio, né troppo distante né scarsamente coinvolto, una maschera 10 che nessuno può permettersi di oltraggiare perché tenerti in vita è il loro modo di restare in vita. Tanto, prima o poi, qualcosa, un gesto, una parola o un lungo silenzio, ti ricordano che l’unica ragione per cui hai deciso di dividere le giornate con questi zombie è il denaro. E sfilarglielo dalle tasche, mentre urtano tra loro, confusi e inebetiti come in quel video di Michael Jackson, procura un piacere difficile da descrivere se non sei mai stato qui. Almeno una volta, nella corsia di questi malati terminali di gioiose solitudini. Poco più di due anni fa mi è venuta incontro l’opportunità di subentrare nella gestione del Winner, una sala giochi nel quartiere in cui sono nato e cresciuto. Prima di andarsene mio padre ha pensato a tutto, tramandandomi un’educazione borghese che ho quasi completamente seppellito ma soprattutto una quantità di soldi sufficiente ad assistere mia madre e mettere al sicuro anche me. Nel senso che questo centro è diventato un’occasione, un modo come un altro per debuttare nel mondo del lavoro all’imperdonabile soglia dei quaranta. Non avendo mai partecipato a un concorso, non avendo mai spedito un curriculum, non frequentando l’universo delle relazioni sociali da cui mi sono sempre sentito respinto, ho deciso di provarci. In mezz’ora e sedici firme ho rilevato la licenza e i locali che ospitano la ricevitoria, così la prima volta che ci sono entrato è coincisa con il giorno in cui ne sono diventato proprietario. In tutta sincerità, pensavo di aver messo le mani sotto una cascata d’oro. Tra calcio, motori, wrestling, ippica e qualsiasi altro evento produca le endorfine dell’azzardo, pensavo che avrei incassato un sacco di soldi senza produrre il minimo sforzo. Stando ogni giorno a contatto con chi è convinto che prima o poi gli accadrà qualcosa di straordinario, credevo sarebbe stato agevole governare la dipendenza da algoritmo di questi tossici solo un po’ meno tristi di quelli veri. Insomma provavo a darmi coraggio, a convincermi di aver fatto la cosa giusta, ma la verità è che niente, e intendo dire veramente niente, avrebbe potuto prepararmi alle categorie umane con cui ho accettato di avere a che fare. I centri scommesse sono camere oscure in cui ognuno sviluppa le sue depravazioni, immergendo la pellicola della vita che avrebbe desiderato dentro il catino di quella che conduce. E le foto stampate tra queste mura non temono l’umiliazione del tempo, sono immortali come i sensi di colpa.
SUA MADRE, Adelaide Caracciolo
(…) Per questo non ho fatto una piega quando, dopo la morte di mio padre, si è presentata l’incognita di chi avrebbe accudito mia madre. L’Alzheimer è stato un miracoloso alibi, una delle ragioni che mi hanno convinto che la casa di cura “Nuove stagioni” sarebbe stata l’unico posto in grado di occuparsene degnamente. Ma in realtà avevo già deciso che non l’avrei fatto io, con o senza malattia non avrei passato insieme a mia madre un giorno in più del necessario. Ricoverandola a tempo indeterminato in questa clinica per pensionati di lusso, mi sono ripreso un po’ del tempo che mi è stato sottratto quando le attenzioni avrebbero dovuto essere tutte per me. Senza scrupoli di coscienza, persino con un po’ di sollievo. Ecco perché sono qui stamattina, nel giorno di chiusura settimanale del Winner. In questo giardino fiorito nonostante il caldo gibboso di fine estate, con mia madre seduta su una panchina e Farouk a sorvegliarne i respiri. «Mamma, come stai?», insisto. «Tutto è perfetto, signor Sandro», ribadisce Farouk. (…) Non mi ascolta più. Non so se lo fa apposta, come reazione al fatto che l’ho lasciata qui. Ma spesso sembra respingere ciò che le dico, a meno che a ribadirne i concetti non intervenga Farouk. Non credo voglia farmi pesare la sua condizione, peraltro invidiabile rispetto a molti altri della sua età. Piuttosto tiene a puntualizzare che averla portata qui mi è costato il diritto di primogenitura, che oramai si è sintonizzata sulle onde gravitazionali di Farouk e qualsiasi cosa non passi per quelle frequenze le arriva come suono in eccesso, tregua disarmonica. E quando lui propone «Mangiamo un gelato?», lei s’accende come una giostra sollevando i talloni dalla brecciolina del giardino, rispondendo: «Alla fragola.» Ada e Farouk sembrano fatti della stessa sostanza, qualcuno deve averli imbalsamati, svuotandone i giorni di ogni significato e imbottendo i corpi di formaldeide. Forse hanno anche gli stessi anni, senza saperlo. Al bar della casa di cura guardano il mondo dritto per dritto, come se non avesse dimensioni. Da una parte mi consola, vederli così simili nei rispettivi abbandoni. Dall’altra mi atterrisce, se penso a come andranno avanti per i tre, cinque anni che ancora restano da vivere a mia madre. E mentre lei scalpella il gelato con la punta della lingua, lui la osserva come si osserva il proprio passato. Sorride a tutto Farouk, anche al mio silenzio. Sorride con denti bianchissimi, una faccia da bambino e gli occhi in cui è cascato dentro il mondo che hanno tutti gli indiani.
LEI, Angelica Capone
(…) Sbagliavo, altroché se è bella, di una bellezza incompiuta, di cui si accorge chi non si accontenta del presente, ora che siamo sotto l’insegna fluorescente, ora che la osservo all’indispensabile luce delle menzogne, mi accorgo d’aver giudicato con troppa fretta questi occhi verdi di cui non riesco a saziarmi, così limpidi e ingenui, occhi rari, leggendari, complici di un profumo che stordisce e mandanti di una verità che fa tremare, occhi che irradiano kryptonite, variano d’intensità a ogni battito di ciglia, cambiano forma a seconda delle parole, pozzi d’acqua marina che spiegano come mai, nonostante contenga speranza, il verde sia il colore più vicino alla notte.
Il link alla segnalazione su L’Intelletuale Dissidente: https://bit.ly/39oYlye