“Lutto” su ALIBI Online
“LUTTO” DI EDGARDO SCOTT: LA BANALITÀ DELLA SOFFERENZA
Alla luce dei recentissimi fatti di Voghera, la tematica di questo romanzo appare di bruciante attualità italica, visto che la vicenda inizia e si conclude con una sparatoria innescata da un uomo armato di pistola (regolarmente ottenuta, certo).
PARTE PRIMA
Siamo in un sobborgo di Buenos Aires. Tarda mattinata. “Chiche”, titolare di un negozio di elettrodomestici, intraprende il suo quotidiano giro in bicicletta, lasciando la consorte a custodire l’attività. Poco dopo, due presunti rapinatori armati (che, evidentemente, conoscono le sue abitudini) entrano e chiedono l’incasso alla signora, mentre altri complici iniziano a caricare su un camion parte della merce in esposizione. Ma, senza che nessuno se ne sia accorto, il proprietario, assalito da un crampo, è rientrato. Impugna la Colt che tiene in casa e spara ripetutamente. Fa fuori uno dei due e ferisce l’altro, che risponde al fuoco e ammazza la moglie. Poi i delinquenti superstiti se ne vanno con la refurtiva.
PARTE SECONDA
La nuova vita del vedovo (e di sua figlia dodicenne) viene raccontata in sette sottoparti a cadenza annuale, suddivise a loro volta in capitoletti tematici che si ripetono costantemente: “Terreno abbandonato”, “Figlia”, “Cani”, “Negozio”, “Film”, “Genoveva”, “Notizie”, “Zingari”, “La donna della merceria”. Veniamo così a sapere tutto, o quasi, di “Chiche”. L’attività commerciale era stata aperta dal padre, Amadeo Nogueira, che poi gliel’ha lasciata in gestione per un affitto simbolico, ritirandosi in una casetta di campagna. Ma da Don Amadeo il figlio ha ereditato (passivamente) anche i comportamenti, la mentalità, i pregiudizi. In particolare, nei confronti dei “negros” (qui reso, nell’ottima traduzione dello scrittore Alessandro Gianetti, con “zingari”: non nel senso di rom o gitani, ma intendendo “persone di assai dubbia moralità, con poca voglia di lavorare ma con molta di vivere bene, trasandati nell’aspetto e che campano di espedienti o di traffici illeciti, quando non si danno direttamente ai furti e alle rapine”). Tuttavia, “Chiche” sa benissimo – come scopriamo a questo punto anche noi – che ad assaltare la sua bottega non sono stati dei veri rapinatori “zingari”, ma gli scagnozzi di un’organizzazione di strozzinaggio e riciclaggio (“coperta” dalla polizia, e con la quale ha saltuariamente collaborato anche lui), che lo hanno scambiato per un debitore insolvente cui dare una lezione. Ha una specie di amico, Miguel, dalla misteriosa professione (forse funzionario governativo, chissà), dedito alle riflessioni filosofiche e alla bottiglia, col quale commenta le notizie “violente” del telegiornale. Dopo aver bevuto, Miguel diventa aggressivo nei confronti della vecchia madre, presso la quale ancora vive. L’uomo ha inoltre l’abitudine di assegnare un nome ai cani randagi che popolano il “Terreno abbandonato” prospiciente alle loro abitazioni, e che rappresentano, in qualche modo, una compagnia per entrambi i sodali. Appellativi strani, di personaggi famosi, ma anche nomi comuni, di persone qualunque. La figlia, Valeria, cresce. Dapprima limitata dalla gelosia di un genitore possessivo, col passare degli anni si emancipa, termina il liceo, inizia a studiare Medicina e alla fine se ne va a vivere a Mar del Plata, col fidanzato. Genoveva è una vicina con la quale “Chiche” avvia una relazione un po’ grigia, banale, piatta anche sessualmente, che, prima di estinguersi, si trascina tra alti e bassi per sette anni. In realtà, lui si sentirebbe maggiormente attratto dalla proprietaria della merceria di fronte al suo negozio, anche se, anno dopo anno, non riesce a manifestarle le proprie intenzioni. Ma si accorge che, tutto sommato, non gli importa nulla neppure di lei. Il “Terreno abbandonato” diventa oggetto di lavori di riqualificazione: che poi non vengono portati a termine, come spesso succede, ma intanto costringono i cani randagi a spostarsi altrove. I film (per lo più d’azione) che ha sempre amato vedere – dapprima in videocassetta, poi in DVD – decadono a un livello estetico ogni volta peggiore, per cui, non ricavandone più alcuna soddisfazione, rinuncia all’abitudine. La madre di Miguel muore, e l’amico si impicca. Gli affari del negozio si riducono praticamente a nulla, eppure “Chiche” subisce di nuovo (passivamente, malgrado i propositi bellicosi di continuo manifestati) una rapina, stavolta vera.
A questo punto, non gli rimane nulla di ciò che era la sua vita.
PARTE TERZA
È notte fonda: le due e mezzo. “Chiche”, che nel frattempo si è comprato (sempre regolarmente, certo) un’altra pistola, non riesce a dormire. Intasca le armi e se ne va a passeggiare nelle vie più squallide della sua area suburbana. Passa ostentatamente di fronte a gruppi di “zingari”. Quando qualcuno di loro prende a seguirlo, si volta, estrae le pistole e apre il fuoco… Il titolo del libro è tolto da un interrogativo di pag. 107: “Quanto dura il cordoglio, o il lutto o come lo si vuol chiamare?”. Tra i randagi viene anche citata più volte la cagna (ma non è detto che sia davvero femmina…) Annabel Lee: esplicito riferimento all’ultima poesia di Edgar Allan Poe (”Molti e molti anni or sono, / in un regno vicino al mare, / viveva una fanciulla che potete chiamare / col nome di Annabel Lee…”), al quale rimanda peraltro anche il nome di battesimo dell’autore. Un altro scrittore americano, Paul Auster, è invece presente sottotraccia, sia nel rapporto con la grande metropoli in cui i personaggi vivono (sia essa Buenos Aires o New York), sia in specifiche immagini: “La locomotiva, si dice, come un ciclope di ferro che avanza per inghiottirmi. Come l’enorme bocca nera di una balena” (pag. 149) riecheggia fortemente il finale di “La musica del caso” – “horror metafisico”, come è stato definito, da cui era stato tratto un film.
STILE ED ECHI LETTERARI
Echi della grande letteratura se ne trovano, comunque, a bizzeffe, palesi o velati. Questo passaggio, per esempio, mi sembra esemplato dall’inizio di “Le anime morte”, di Gogol’: “Un locale né troppo grande, né troppo piccolo, non troppo elegante o lussuoso, ma nemmeno troppo squallido” (così invece il sommo ucraino: “Nella carrozzella sedeva un signore, non particolarmente bello, ma neppure di brutto aspetto, non troppo grasso, né troppo magro; non si può dire che fosse vecchio, ma neppure che fosse troppo giovane”). Tuttavia, il tono generale della scrittura, le cui pieghe leggermente stranianti discoprono spesse volte grumi di commozione (vedi l’episodio dei cani morti), mi sembra più che altro affine a quello del francese Philippe Claudel, in particolare in libri come “La nipotina del signor Linh”. Abbiamo testé citato Buenos Aires in rapporto a New York. Le due megalopoli multietniche si somigliano, per molti aspetti. Così come la città del Nord, prima di diventare inglese, si chiamava Nuova Amsterdam, perché apparteneva agli olandesi (il suo celebre quartiere negro prende il nome dal borgo nederlandese di Haarlem), la Grande Capitale del Sud divenne spagnola dopo essere stata fondata dai portoghesi. Per questo motivo, se a New York “l’aristocrazia” – ossia, i coloni di più lungo insediamento – è rappresentata dalle famiglie con un cognome olandese (uno per tutti: Roosevelt, portato da ben due Presidenti), così a Buenos Aires avviene per le famiglie dal cognome portoghese – Borges, per esempio. Il quale Jorge Luis, che per parte di madre faceva Azevedo, quando andò a Lisbona osservò meravigliato: “Tra il cognome di mio padre e quello di mia madre, devo avere un mucchio di parenti, qui”. Ebbene, il genitore di “Chiche” si chiama, come si è visto, Amadeo Nogueira: guarda caso, uno dei cognomi di Pessoa (all’anagrafe, Fernando António Nogueira Pessoa). Inconsciamente – o magari neppure tanto – deve essere la consapevolezza “di stirpe” derivante dal cognome lusitano a fargli disprezzare, oltre che i “negros”, anche tutti gli altri immigrati, in quanto “avventizi” o “parvenus” (sebbene la tematica venga abilmente elusa, credo che a grattare un po’ ne verrebbero fuori pregiudizi verso “lituani, polacchi, galiziani e, in misura minore, italiani”, pag. 50). Tutto, in lui, trasuda stucchevoli luoghi comuni: “Gli inquilini, secondo Don Amadeo, distruggono sempre più di quanto paghino. Inoltre, sostiene, a volte pagano in ritardo ed è difficile toglierseli dai piedi (Amadeo si è convinto di tutto questo per sentito dire, non perché gli sia successo)”. C’è una grande, quasi insostenibile tristezza di fondo, in questo libro: che racconta una sorta di “banalità del male”. Dove per “male” non si intende la perfidia, bensì la sofferenza, e il confine tra chi fa soffrire e chi soffre è talmente labile che le due figure finiscono per sovrapporsi. Ma proprio per questo, leggerlo può aiutarci alla comprensione, all’empatia e quindi alla tolleranza. Almeno noi…
Marco Grassano
Il link alla recensione su ALIBI Online: https://bit.ly/3yx6lYI