Madame Dupont
I
PER ASPERA AD ASTRA
La notte calava rapida sui tetti color ardesia, quel dieci febbraio 1808. Giovanni Maria era solo, disteso sul suo letto di Rue Froidmanteau, a Parigi, con il viso irrigidito rivolto al soffitto. All’improvviso, vi parve scorgere delle stelle luminose. Il “cielo” era un manto vellutato, una volta celeste immensa dove gli astri tremavano simili a ceri di penitenti in processione, quelli che tante volte aveva visto a Bono da bambino. Il suo volto scarno era pallido – quel biancore cadaverico metteva in risalto la nobiltà dei lineamenti – e anche livido, emaciato dagli stenti, ma bello. I capelli erano in ordine, malgrado il sudore dell’agonia. Le mani ghiacciate denunciavano la vita che lo abbandonava. Il respiro si faceva affannoso ma si univa all’alito universale della Terra in una stupefacente armonia. L’uomo era sereno. Pensa- va alla sua sposa, Annica, scomparsa quel maledetto 9 dicembre del 1791, alla loro relazione talora sulfurea, alle tre figlie avute con lei, a tutte le beghe di famiglia. L’avrebbe finalmente rivista? Avrebbero chiarito i dissapori? Esisteva davvero un aldilà? Diciassette anni in sua assenza erano stati lunghi e penosi, nonostante i loro litigi, le accuse che Anna gli aveva rivolto per aver costretto lei e le figlie a una vita tribolata a causa della sua testa calda, del suo tradimento, come chiamava la fede di Gio Maria negli ideali patriottici e antimonarchici. E, in un certo senso, lui aveva realmente tradito la sua famiglia, il suo re, che non aveva mai considerato tale, declassandolo a principi di Savoia.
La sua mente vagava, come in una pellicola in bianco e nero, fra sogni e ricordi, speranze e rimpianti di una vita che se ne andava troppo presto… Cinquantuno anni, in fondo, erano passati in fretta. Pensava al suo sogno infranto, quello della Sarda Rivoluzione, al fatto che si stesse spegnendo in esilio senza averlo potuto realizzare, senza riuscire a vedere una Sardegna giuridicamente, economicamente e socialmente emancipata. Ricordava, commosso, il tentativo d’insurrezione nell’isola da parte di Francesco Cilocco e Francesco Sanna Corda, il loro tragico sbarco a Longone conclusosi con la morte del secondo in uno scontro a fuoco sul porto, e con quella, ancora più terribile del Cilocco, tradito, torturato e sommariamente giustiziato a Sassari.
Stava morendo senza aver potuto abbattere l’orribile mostro del feudalesimo e la dominazione savoiarda che lo nutriva, generosa, sulla pelle del popolo. Tuttavia, si percepiva in lui come una sana rassegnazione, quella degli uomini giusti, consapevoli di aver fatto il possibile per la causa in cui credono. Possedeva la calma dei forti, degli isolati, degli esuli; la calma di coloro che hanno lottato invano ma con passione e fino all’ultimo respiro.
La povertà degli anni dell’esilio non era riuscita a sottrargli la dignità, quella nobiltà d’animo che lo aveva da sempre contraddistinto, quella fierezza tutta sarda di eroe solitario, sebbene altri patrioti avessero condiviso una simile sorte.