La santità del padre
PROLOGO
Nella calda estate dei suoi ventiquattro anni, Osvaldo Coisson fu invitato a prendere parte a un’arrampicata. Da qualche tempo nella sua comitiva c’era una nuova ragazza alla quale, fino a quel momento, non aveva mai fatto troppo caso. Per lui era sempre stata la sorellina petulante e fastidiosa di qualche amico, una presenza di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Fino a quel giorno. Ora gli sembrava di non avere mai visto una ragazza così interessante in vita sua. Non aveva altro desiderio che continuare a sentire la sua voce, torcendo il collo nel tentativo di indovinare il suo profilo. Si chiamava Leda Giraudo e aveva da poco compiuto diciannove anni. Portava i capelli scuri corti, tagliati alla maschietta, aveva un incedere svelto anche sui sentieri più impervi, tanto che gli amici la chiamavano, ridendo, “capretta”. Riusciva a sembrare sensuale anche con i maglioni pesanti e i pantaloni di velluto alla zuava; nessun’altra era in grado di indossare le sgraziate pedule come se fossero calzature francesi d’alta moda. Si era fatta un nome nella loro compagnia di montanari, aggiungendo alle escursioni un certo tocco femminile fino a quel momento sconosciuto, grazie al suo modo di fare a dir poco inconsueto. Non era da tutti partire per un’arrampicata portandosi dietro gigantesche sacche piene di ghiottonerie da gourmet, invece dei soliti panini con il salame a cui erano abituati. Una volta giunti in vetta, grazie a lei, il momento del pranzo diventava sontuoso come un ricevimento. Consumavano rustici al formaggio e pizzette di pasta sfoglia, panini all’olio con cubetti di cioccolata svizzera e giganteschi thermos di caffè bollente. Inoltre, per immortalare le loro scalate, si era dotata anche di una delle prime Polaroid istantanee in commercio, di cui andava molto fiera. Tutte innovazioni che Osvaldo aveva trovato irritanti, e che ora invece gli sembravano assolutamente fantastiche, tanto che si chiedeva come avesse potuto farne a meno fino a quel giorno.
Quando la vide arrivare sul piazzale della parrocchia, prima che il torpedone partisse, gli si stampò sul volto un enorme sorriso. Si sentiva esultante. Quell’arrampicata prometteva bene. Le difficoltà sportive dell’impresa passavano in secondo piano rispetto al piacere di poter condividere una compagnia così intrigante, una ventata d’aria fresca che faceva passare in secondo piano la sfida con le montagne. Era generosa, disponibile, ciarliera, sempre pronta a prodigarsi per gli altri, ansiosa di rimanere al centro dell’attenzione in un turbinio continuo di gridolini e risate. Molti del loro gruppo la consideravano solo una dilettante esibizionista, altri erano perfino offesi dal suo ostentato sfoggio di sicurezza e dalla generosità eccessiva con cui distribuiva a ognuno viveri e vettovaglie. Ma lei non sembrava rendersi conto di nulla, isolata e protetta com’era da un’incrollabile fede in se stessa, restava all’oscuro del risentimento che poteva suscitare, ignara delle critiche che riceveva e di quanto si diceva alle sue spalle. Osvaldo, che era appena uscito dalla facoltà di Ingegneria, nutriva da sempre un’ammirazione incondizionata per tutto ciò che era artistico e amava quel suo tocco di istrionismo che agli altri, invece, sembrava dare un gran fastidio. Pensava che non ci fosse nulla di male a interpretare un ruolo, a recitare una parte. Se raccontiamo delle storie a noi stessi e agli altri, si diceva, era per poter vivere meglio. Anche nell’ambiente accademico aveva potuto constatare la stessa cosa. Si era portati a indossare una maschera, scegliendo la soluzione più funzionale tra le tante opzioni possibili. Faceva parte della natura umana, in fondo, il lento e lungo adattamento a ogni nuova realtà. Profondamente cattolico, credeva che non fosse caritatevole giudicare i difetti degli altri, ma piuttosto sperare di far passare inosservati, o quantomeno sopportabili, i propri. E in quel momento lui si sentiva assai inadatto, goffo e sgraziato, di poca o nessuna attrattiva nei confronti del gentil sesso.
Dal finestrino della corriera levò lo sguardo verso la montagna che si stagliava contro il cielo, con le sue vette aguzze, che se ne stava lì ferma e immutabile come un gigante. Somigliava a un vasto mare inclinato di ghiaccio scintillante sotto la luce obliqua del Sole. Al confronto, perfino le cromature della Polaroid di Leda, che stava seduta qualche posto più avanti, sembravano opache e sporche come pozzanghere di pioggia sull’asfalto, incapaci di reggere il confronto con i suoi occhi, che invece riflettevano la luce brillante come la neve sotto i raggi solari.
Il vento intorno sollevava turbini di nevischio, che scorrevano giù dalla cima incollando sui loro abiti uno strato di brina che scricchiolava a ogni minimo movimento. Sui suoi occhiali a specchio, che portava fermati sulle tempie con un elastico fosforescente, si formò subito un guscio di ghiaccio che gli appannava la vista. Cominciava a perdere la sensibilità nei piedi e sentiva le dita legnose dentro le manopole imbottite. Prese a battere le mani contro il corpo e i piedi sul selciato, impaziente di iniziare la lunga arrampicata verso la vetta. Desiderava arrivare lì con la stessa intensità con la quale voleva raggiungere lei, con quella sua risata argentina che rotolava come un’eco per l’intera vallata. Il suo intento era conquistare la vetta a passo di marcia, e non solo quella. Quel giorno bramava di conquistare un sogno, di cui lei avrebbe dovuto necessariamente far parte.