Il fabbricante di giocattoli

Un estratto del romanzo di Tito Barbini

 

 

 

1

Giocattoli

 

 

 

 

Simón amava fabbricare giocattoli.
Simón bambino, fabbricante di un aquilone realizzato con due pezzi di tela, uno rosso e uno nero. Cuciti insieme dalla mamma.
Simón, prima dei suoi vent’anni, fabbricante di una bomba giocattolo. Un gingillo fatto in casa, una specie di petardo, micidiale, da lanciare contro il tiranno.
Simón in età adulta, fabbricante di bambole e soldatini di piombo, per i bambini.
Simón Radowitzky, si chiamava, nome difficile da scrivere e da pronunciare: ma chi era?
Se in un giorno di quasi vent’anni fa non mi fossi trovato a visitare il bagno penale di Ushuaia e non fossi entrato nella buia cella dove stava imprigionato e se, rovistando con la coda dell’occhio, non mi fossi imbattuto in quel nome, per me niente di tutto questo sarebbe cominciato. E forse non avrei scritto questo libro.

 

Simón Radowitzky, Convicto155

 

 

La targhetta, con la scritta, fissata vicino allo spioncino.
Un anonimo visitatore, penso a una mano femminile, delicata, aveva aggiunto una frase con un pennarello azzurro:

 

Simón ragazzo dagli occhi viola e dalle idee troppo grandi.

 

Da non crederci, è ancora lì, indelebile, nessuno l’ha più cancellata.
Ecco, se per questa storia è giusto fissare un inizio, bisogna partire da qui: per quanto, si sa, vi sia sempre qualcosa di arbitrario nel modo con cui si comincia un racconto; per quanto, si sa anche questo, spesso i migliori inizi siano proprio quelli che danno l’idea di essere qualcos’altro.
Dunque, carta geografica. E dunque, c’era una volta, nella terra più lontana che si può immaginare, una città con una colonia penale orribile e fredda. Decisamente non era desiderabile mettervi piede, non più di quanto non accadeva con altri posti lontani, più tristemente noti. Per dirne uno, la Guyana francese, che diventò famosa per aver ospitato, nell’Isola del Diavolo, l’innocente capitano Dreyfus. Oppure la Nuova Caledonia, talmente sperduta nell’Oceano Pacifico che manco a cercarla con il lumicino si riesce a trovare.
C’era una volta e ora non c’è più. Come nelle fiabe per i bambini. Però questa non è una fiaba anche se, come nelle fiabe, il racconto crea, spesso, un mondo a sé stante, diverso dalla realtà.
Quando ero un bambino, mio babbo mi raccontava tante storie. Da allora ho imparato che sono molti i modi per raccontarle, almeno tanti quanti ce ne sono per narrare una fiaba a un bambino o per narrare un fatto di cui abbiamo soltanto sentito dire da altri.
Può accadere che ci sia una bella distanza tra esperienza vissuta ed esperienza raccontata. E forse non c’è storia che possa essere riportata da uno scrittore senza che lui ci metta dentro la sua immaginazione.
Questa storia però è tutta vera. I personaggi di questo libro sono realmente esistiti e i fatti che vi vengono narrati realmente accaduti. Ai personaggi e ai fatti ho aggiunto una mia personale ricostruzione, sulla base delle testimonianze che ho raccolto in giro per Buenos Aires. Questo anche per colmare i vuoti lasciati dalle cronache di quegli anni. Non saprei davvero come definirlo questo lavoro. Credo che sia allo stesso tempo un’avventura personale, un’indagine storica e infine diverse storie di lontana emigrazione. Però mi piacerebbe fosse considerato un romanzo di sentimenti, una vicenda di persone che si cercano e si perdono per tutto il tempo di una vita. Senza mai trovarsi veramente.
A dar loro un sentimento, poi, provvedono le emozioni che ancora riesce a destarmi l’idea dell’anarchia, un’idea generosa e sciagurata che, appena nata, era già al tramonto, eppure capace di alimentare vicende di grandezza e miseria, di dedizione e scempio.
Questa storia però potrebbe avere anche un inizio differente. Per esempio, potrebbe partire da un altro luogo e da una data di nascita. Ecco qui: Simón Radowitzky, nato in Ucraina, nella Russia zarista, da una famiglia ebrea. Insomma, si potrebbe cominciare con l’ordine e la lucidità che si pretendono da una buona biografia. Però no, questa non è nemmeno una biografia. Piuttosto è il racconto di una vita. Anzi, di più vite, tra le quali anche la mia. Vite collegate. Penso a fili, benché esili esili, allungati nel tempo e nello spazio. Vite che si srotolano nei passi di un viaggio.
Chi era davvero Simón Radowitzky, comunque, l’ho scoperto solo in relazione a quel terribile carcere alla fine del mondo. Con Simón è iniziato così uno strano gioco: ho preso i suoi ricordi e li ho fatti miei. Ora cerco di restituirli, lui non può riprenderseli ma è come se mi accompagnasse in questo viaggio: attraverso la sua vita.
Quando Simón Radowitzky venne portato quaggiù era poco più di un ragazzo, però aveva consapevolezza dell’immensa prova che lo stava aspettando con la privazione della libertà.
Era un giovane. Un giovane anarchico. Un giovane anarchico condannato al carcere a vita. In realtà stava per cominciare una nuova esistenza in un luogo fatto di lontananze, d’incontri rarefatti, di silenzi.
Lo attendeva un destino segnato dalla violenza e dal sopruso, da qualcosa che gli avrebbe imposto di riordinare le priorità della vita, di tutta la vita.
Lo avrete immaginato, venti gelidi portano questa storia alle estremità del mondo, dove finisce la catena montuosa delle Ande. Quasi sull’acqua ghiacciata dei canali e degli stretti: la Terra del Fuoco. Lingue di ghiaccio che scendono negli oceani, boschi con gli alberi piegati dal vento. E dopo la terra ferma un infinito ricamo di isole e isolette, di scogli protesi nei flutti e di bracci di mare che invadono gli scogli.
Quando Magellano, cinquecento anni fa, navigò da quelle parti alla ricerca spasmodica di un passaggio dall’Atlantico a quello che lui chiamerà il Pacifico, battezzò queste lande Tierra del Humo, in virtù delle alte colonne di fumo che si alzavano dagli accampamenti degli indigeni. Ma, con grande arguzia, un certo Carlo V re di Spagna, suo datore di lavoro, rammentò a tutti che dove c’è il fumo c’è anche il fuoco e quindi decretò il cambio del nome in Terra del Fuoco. Lo fece con una bolla reale.
Il posto dove si compie il destino di Simón, Ushuaia, è a cento metri dal mare del Canale di Beagle, il suo nome indigeno è Kanasaka: dove le alghe cedono ai cespugli di calafate. Lì c’è una costruzione a forma di stella, enorme, tutt’intorno i filari di cipressi delle Gualtecas. Che poi sono le piante conifere più australi del mondo.
Quaggiù, una mattina dell’aprile del 1909, una corvetta a vapore sbarcò un ragazzo di nemmeno vent’anni, manette ai polsi e ferri alle caviglie.
Kanasaka era una piccola città a quel tempo, nelle terre degli indios Yamana, nata e cresciuta attorno alla curiosa attività di custodire l’isolamento di quegli sfortunati che la società espelle dal suo seno: lontana dal mondo abitato e a poche miglia marine da Capo Horn. L’immensità e l’asperità del paesaggio offrivano una recinzione naturale insuperabile. Nessuno poteva avventurarsi a piedi attraverso le montagne o, tantomeno, a nuoto via mare. Il tempo era il guardiano più severo. I primi prigionieri iniziarono ad arrivare con la fondazione della città stessa. Alcuni provarono a fuggire, ma nessuno sopravvisse.
Dunque dicevamo che nella punta estrema della Terra del Fuoco c’è Kanasaka, ora Ushuaia, il centro abitato più a sud del Sud del mondo. Fiera e mai doma, Ushuaia si contende il primato con Punta Arenas, vera e propria città, l’ultima del Cile che, tuffandosi più in là, verso il Pacifico, nello Stretto di Magellano, rivendica per sé l’appellativo di agglomerato urbano più a meridione del Pianeta.
La disputa è sempre aperta, poi ognuno ha la sua convinzione. Da testimone imparziale, e per giunta amando Punta Arenas più di Ushuaia, devo ammettere le ragioni di quest’ultima: è a lei che il titolo spetta.
Allora un viaggio è così, soprattutto quando arrivi al confine del regno umano e delle cose. Perché, quando il giovane prigioniero ucraino arriva qui, questa è ancora una terra incognita, perlopiù da scoprire, percorsa dal vento e dal gelo, abitata da sparuti gruppi di indigeni e da una pessima comunità di avventurieri, finiti in culo al mondo per le ragioni più disparate.
Gente che ha vissuto qui le proprie solitudini trasformando sovente i propri giorni in cattive azioni. Esploratori e conquistatori, coloni spietati, cacciatori di balene e di teste, assassini e braccianti, sfruttati e schiavizzati.
Parabole di vita molto diverse. Eppure tutte segnate dal naufragio di un sogno.
Un sogno che si chiamava America.
Ho scritto tanto di questa terra e dei suoi guerrieri, quelli armati e quelli disarmati, e quasi sempre ogni accadimento si è incontrato almeno con un altro, tracciando quel cerchio magico che Borges ha descritto così bene.
Storie che quaggiù conducono sempre ad altre storie.


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