“La vita schifa” su Tabula Rasa
La vita schifa
Poniamo il caso che vi sia da qualche parte un senso compiuto, un cerchio aperto e poi chiuso, coi punti stretti e liquidi da capo a fine; così non solo in geometria, ma nel verso stolido e pensato che pretende di sapere il senso che non c’è: della vita, della fame e della morte, camurrìa! Il senso della cura prima della malattia: con quelli che sono medici improvvisati, figuranti a mescolare il ruolo con l’essenza, distratti da un nulla chiassoso: fuori è ciò che conta, fuori dai gangheri, fuori tempo e dentro un coro di identiche voci. Eppure si trova un conforto e un rifugio perfetto, nonostante la confusione di intenti e mancate prospettive, e la voglia di restare col naso all’insù a lasciarsi tramortire dalle stelle; lo si trova nei libri che riescono a sorpassare, accarezzare, trovare uno spiraglio e insinuarsi nella scorza di chi legge con un pizzicore in mente, come una sete di stupore che alcuni autori sfiorano e rincalzano con squisita abilità. Accade una magia simile con Rosario Palazzolo ne La Vita Schifa edito da Arkadia, volendo essere precisi. Perché preciso è il luogo e l’intercalare, precisa-sputata la somiglianza con questo o quel destino che chi l’avrebbe detto mai di trovarsi vivi stecchiti, dopo essere morti cento volte in una sola esistenza? Si incontra Ernesto Scossa e lo si ama. Ernesto è tutti noi e neppure uno, neppure un pezzetto di noi, perché da solo incarna i vizi e tutte le virtù intentate, lasciate sporche, abbattute, scordate come una cosa inservibile; ed è coraggioso fallire così, nessuno vuole fallire mentre gli altri restano a guardare, magari con un sorriso cattivo appuntato alla faccia, a metà tra l’ebete e il compiaciuto: fallire alla luce del sole con l’evidenza che dice cose che si vorrebbero seppellire, rinnegare e maledire casomai; coi pugni stretti e le proteste nate in gola, messe a tacere da flebili piani di rinascita, che a pensarci un attimo finisce a schifìu, si rinuncia in partenza. Ma Ernesto non rinuncia, Ernesto ha fame di idee, ha parole che gli cadono storte dalla bocca, una mezza speranza maciullata tra le mani serrate, una specie di strana gentilezza che non sta zitta mai, come le parole di Palazzolo che per fortuna hanno una voce, hanno un’immagine di nuovo precisa-sputata a quelle che uno potrebbe farsi assistendo a un’opera con gli attori, un palcoscenico o uno schermo grande a illuminare il buio: Palazzolo ha parole in carne ed ossa, parole toste, serrate, come un flusso di coscienza con la punteggiatura, coi ritmi veloci, agili. A tratti si legge in apnea, a tratti ci si ferma a ridere, a riflettere, a ripetere una parola a voce alta per vedere l’effetto che fa. La Vita Schifa si legge perché fa bene e perché l’ha scritto Palazzolo. La storia gira intorno ai buoni, ai cattivi, e al protagonista che si arrampica lungo-lungo pur di non mettersi in una sola tra la vertigine e lo spavento di categorie disponibili. Non per distinguersi ma per amore del dubbio, si risolleva e cade mille volte, sguazza nella sostanza infima di pochi, dunque la reinventa cercando un senso di giustizia nello sgarro; come quando toglie la vita a un mucchietto di ignoti passanti, ignoti viventi, ma intanto si prende un istante, lo rende palese, chiede ai morenti di accorgersi di stare smettendo l’esistenza come un abito logoro. Ernesto non campa mica bene, perciò decide di smetterla con la farsa che è quel suo ciondolare assetato e sfatto, unito a una stanchezza primordiale, a un amore con la data di scadenza, agli slanci che parevano una febbre, una pena nera, e invece poi si sgretolano e appiattiscono, dimenticano le loro altezze, dormono un sonno che è come cadere senza fine, senza requie, senza mostri. Ed è una cosa schifa questa qui, ma mica tanto se si dimentica di avere una storia da percorrere anche fuori dai libri, e un nuovo inizio appiccicato a un punto smilzo e promettente, da ringraziare.