“Il maragià di Firenze” su Il Sole 24 Ore
Carnet de voyage/2
L’Oriente raccontato attraverso gli elefanti
«Il catalogo è questo!» canta Leporello, il servitore di don Giovanni, in una celebre scena dell’opera di Mozart, snocciolando le conquiste amorose del suo instancabile padrone. Il leporello è poi diventato un originale formato editoriale a fisarmonica. Nel suo ultimo libro il pittore e orientalista Stefano Faravelli ha utilizzato questo formato per gli amati Elefanti d’India e d’atelier (un titolo italiano per un libro in francese, Editions Apeiron). Da un lato Faravelli riordina disegni dal vivo di elefanti incontrati nei suoi viaggi indiani. Tra questi il pachiderma che estorce caramelle per sé e rupie per il suo conducente (mahout) bloccando le auto sulla strada da Udaipur a Mount Abu, in Rajasthan; oppure famiglie di elefanti che si bagnano all’alba a Peryar, nel Kerala. Poi ci sono gli elefanti prigionieri, quelli a cui Kipling dà voce in un poema intitolato Il sogno di uno schiavo: «Dimenticherò l’anello che mi serra il piede e strapperò il mio picchetto. Ritroverò i miei perduti amori e i miei liberi compagni di giochi». L’altro versante delle carte colorate è popolato invece da elefanti d’atelier, ricreati nell’immaginazione con molte concessioni al divertimento: pachidermi scatenati in serre tra preziosi vasi di porcellana, elefanti sognanti evasioni da protocolli e parate, topi ed elefanti insieme in una proverbiale complicità tra il più grande e il più piccolo dei mammiferi terrestri. Dietro a ogni tavola c’è il segreto auspicio di una ritrovata vicinanza tra uomini e animali. L’associazione dell’animale «a due mani» con quello «a una mano sola» può generare un essere unico, di superiore intelligenza e irresistibile forza, nell’amorosa empatia tra il gigante e il suo conducente. L’ideale prosecuzione di questo percorso di lettura indiano potrebbe essere il nuovo libro di Paolo Ciampi Il maragià di Firenze (Arkadia, Cagliari, pagg. 128, € 14). Nel 1870 il maragià di Kolhapur, appena ventenne, muore in una locanda di Firenze sulla via del ritorno verso l’India, al termine del suo viaggio europeo per completare la formazione e rendere omaggio alla sua potente padrona, la regina Vittoria. Con sorprendente comprensione e apertura verso i costumi altrui, i fiorentini consentiranno al seguito di bruciare il corpo del maragià secondo il rito indù alle Cascine, disperdendo poi le ceneri in Arno, domestica copia del remoto Gange.
Claudio Visentin