“Fratello minore” su Poetarum Silva
IL SABATO TEDESCO #16: STEFANO ZANGRANDO, FRATELLO MINORE
Anna Maria Curci
Ti vedo, o almeno credo. È uno dei momenti più sfocati della tua biografia. In bianco e nero, si direbbe, o forse è solo Berlino est che a quest’altezza, sei anni dopo il cosiddetto crollo del Muro, è ancora immersa in larga parte in un grigio fatiscente, che smorza i facili entusiasmi nostalgici di chi ti vede dal futuro: dal variopinto supermarket dell’Europa d’inizio millennio. Chissà di che colore è il tuo soprabito, subito spruzzato dalla pioggerella autunnale appena metti piede in strada, il portone scrostato che si chiude alle tue spalle. Sotto l’unico lampione nei tuoi pressi, in una luce tremolante, la fiamma dell’accendino che si accosta alla seconda sigaretta senza filtro del giorno – e sono solo le cinque del mattino – perde forza e poesia. Ne saresti contento, una vignetta kitsch in meno.
La Choriner Straße è un buon posto per abitare, dopo l’89. Al confine tra Mitte e Prenzlauer Berg, da qui in pochi minuti sei in Alexanderplatz – se vuoi fiutare bene i venti che spirano da ovest e che stanno spazzando via tutto, un po’ alla volta, in un paziente e implacabile lavoro di erosione; oppure in un attimo sei nella Schönhauser Allee, l’asse più in fermento di questo ex-quartiere operaio che, nel giro di un decennio o poco più, verrà colonizzato e tirato a nuovo dai figli di papà occidentali, tedeschi e non solo. Molti autoctoni, i più anziani soprattutto, se ne andranno da qui nei sobborghi, arresi ad affitti sempre più insostenibili; qualcuno della tua cerchia resisterà e lo incontrerò.
Ma non è ancora tempo, sono molti gli edifici ancora in stato di abbandono, frutto di una gestione anche urbanistica che qui, nel biotopo degli artisti alternativi, aveva ancor meno interesse a farsi bella.
Guardi la cavità che hai davanti, un buco fra due case, uno dei tanti vuoti che puntellano il tessuto cittadino, per lo più resti di guerra – le bombe alleate, mezzo secolo fa, cadevano fitte –, uno dei pochi tuttavia in questa zona, risparmiata più di altri e perciò preda a venire degli speculatori immobiliari più glamour-oriented. Qui poi, davanti al civico 36, è cresciuto un tiglio, grande e bello, la cui chioma, dimora di uccelli e scoiattoli, gareggia in rigoglio con quella del castagno che, nel cortile interno, ti fa compagnia quando volgi lo sguardo alla finestra, seduto alla scrivania, dalla tua abitazione al quarto piano. Oggi quello non l’hai guardato, è vero, è ancora buio, settembre è ormai alla fine. Ma converrai che neppure una partita a campo minato su uno schermo a tubo catodico è la vista migliore per entrare nel giorno.
Certo, continuare a non bere è una sfida più dura del previsto. Non fosse per Petra, che ha stretto la mano al bimbo puro e rabbioso che è in te e che, nella veste di un controllo amorevole, ti sprona a trovarti fuori dai tuoi vecchi schemi, saresti scivolato ancora più giù, la tua vita era un greppo franoso – da quanto? Quand’è che il tuo istinto ribelle ha iniziato a procurarti più sfiducia che gloria? Hai compiuto da poco quarant’anni e, benché da venti porti gli stessi occhiali, o almeno la stessa montatura, non puoi dire di aver costruito granché. Non dovrebbe essere, questa, l’età dei primi bilanci? Sciocchezze, diresti, anzi: troiate. Neanche Petra, a dire il vero, ti travolge fino in fondo: l’idea che Margit, tua moglie, l’attrice perfetta, il grande amore, voglia ormai il divorzio ti distrugge, sarebbe da sola una buona ragione per riprendere il bicchiere, subito. E pensare che hai smesso anche, forse soprattutto per lei. Ma Petra non lo sa – o magari sì; comunque la tua mano non la molla.
Ti incammini verso nord, non so perché, oggi è così. Non puoi nasconderti, come al solito, un certo senso di lutto per i luoghi già estinti. Non che prima, nella DDR, qui ci fosse chissà cosa. Ma anche solo il Rechenberg, bettolaccia senza neppure un nome, chiamata con quello del suo gestore, dove qualche sabato mattina ti ubriacasti assieme a uomini già sfatti dalla sera precedente, era un modo, che allora non pareva neanche tanto degradato, per sospingere la vita, la sua pena disuguale. L’Oderkahn era un po’ meglio, più decente, a parte quel gradino all’ingresso che pareva lì apposta per far inciampare e schernire gli imbra- nati; bruta uguale era invece la Trümmerkutte, all’angolo fra l’Odeberger e la Kastanienallee, dove portacarbone e portarottami crollavano sui tavoli già alle sei del mattino; ma apriva appunto alle cinque, avresti potuto andarci anche oggi. E forse ci andresti, se ci fosse ancora.
Invece non vai in nessun posto, cammini soltanto, una via dopo l’altra, alcune già ribattezzate dal nuovo corso della Germania riunificata, te ne freghi della pioggerella – ti protegge una vecchia coppola – e resisti ai cattivi pensieri, residui tenaci e antichi dell’ennesima notte seminsonne. Osservi, convinto che l’esplorazione ravvicinata di un microcosmo, anche quando deve ancora ridestarsi e sono poche le finestre già illuminate, sia la strada da percorrere, adesso. Al diavolo il vasto mondo, non è di quello che oggi si può scrivere, pensi. Presto sarà tutto uguale e ugualmente asfissiante, in questa fregatura chiamata capitalismo. Se la Germania dell’est era una dittatria, dirai fra un paio d’anni in un’intervista, quella di oggi è una democratura – tu e i tuoi giochi di parole, non puoi proprio farne a meno. (pp. 19-21)
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