Le stelle doppie

Un estratto del romanzo di Anna Bertini

 

 

 

PROLOGO

 

 

Tu, che hai fatto a pezzi le Pleiadi. Sole principale, tu e la tua piccola e debole compagna, che tieni celata nel bagliore, proteggendola. Stella, lontana nella prospettiva del cielo, stai nella nube galattica più vicina di quanto si pensi.

Tu, l’inseguitore, al Dabarān, detto anche Alpha Tauri.
Ci hai tenuti nella tua scia, come uniti da un cordone ombelicale, noi bambini inespressi, innocenti, lasciati liberi davanti all’orizzonte.

Aldebaran, se solo avessimo avuto unicamente te a crescerci, avremmo conservato purezza e incoscienza.

L’età adulta, come il mare, accumula detriti, ma non c’è onda a riprenderseli. Delle collezioni della mia fanciullezza, alcune non si potevano conservare sotto un vetro, né esporre al mercato degli scambi: erano le paure e i vuoti degli adulti.
Ci siamo forse salvati grazie alla fioca compagna che portavamo nascosta in un cuore luminoso. Noi, le stelle doppie.

 

 

 

1

 

 

 

Ardenga, 15 aprile 2003

Sono vecchio e stanco. Non sarò vivo a lungo, mi consumo giorno per giorno, ne sono consapevole. Spero di farcela ancora per qualche
settimana, ho qualcosa da portare a termine.
Vorrei partecipare all’appuntamento a Molina.
Jacopo mi ha informato per e-mail, parlava di una reunion. A Molina appunto.
È un posto di mare quello in cui tutto è cominciato, una trama lunga molti anni.
Da lì sono iniziate le storie di tutti, dei bambini, di noi adulti di allora, oggi oramai vecchi. Di quelli che sono andati e di quelli che sono rimasti.
Quel posto ha il nome di una stella, si chiama Aldebaran.
Il nome aveva qualcosa a che vedere con noi, ma non lo sapevamo.
Non ci eravamo mai soffermati su quel nome, sulla natura o sul carattere di quella stella. O di quelle stelle, le stelle gemelle, che vivono una dentro l’altra. Adesso basta un clic sul web per saperne di più, allora serviva un libro di Astronomia.
Se avessimo cercato, avremmo trovato il destino scritto dentro quel nome? Avremmo capito quale gemello ci aveva assegnato?
Vorrei andarci, e portare qualcosa con me. Qualcosa che ho preparato in questi ultimi tempi: una memoria. Potrei scriverla, ma devo dosare le mie energie, non riesco ad applicarmi che poche ore al giorno oramai.
Voglio farlo, lo devo a qualcuno, e forse, soprattutto, lo devo a me stesso.

 

 

Aldebaran uno

I posti di villeggiatura quando li frequentiamo con continuità ci diventano familiari. Poi, quando ce ne allontaniamo, il ricordo di quel luogo soppianta il reale e, quando vi facciamo ritorno, quella realtà non è più riconoscibile. È divenuta ostile.
Molina era un luogo quasi neutro oramai. Ognuno lo custodiva nella memoria in modo diverso. Tutti potevano ritrovarsi lì, tornare ai Bagni Aldebaran, dove avevano trascorso tante estati, e non provare disagio.
Negli anni Settanta il nucleo del gruppo di amici era formato da sette ragazzi. Alcuni di loro erano villeggianti, come Marco e Lucilla Grazioli che venivano dalla non lontana città di Ardenga, e i loro amici Jacopo e Manuel, figli dell’ingegner Guido Alati e di una insegnante venuta a mancare assai giovane, la collega della signora Grazioli. La famiglia Alati si era trasferita da Torino ad Ardenga per la professione del padre, dirigente nella sede locale di un’industria automobilistica.
Attorno al gruppo più o meno stabile di compagni di vacanza – gli Alati erano mancati un anno per la morte della madre – avevano “gravitato” tanti altri bambini, divenuti poi ragazzi. C’erano Giovanni, il figlio dell’edicolante, che faceva a pugni con tutti; i vari Renato e Alfredo venuti dalle grandi città del nord; un Filiberto dall’Emilia che aveva corteggiato assiduamente Lucilla; Antonia, fiorentina, il cui padre era proprietario della pilotina a vela su cui tutti ambivano a salire; Annette e Georgette, figlie di Fabio Battistelli. C’erano anche Lisa, la nipote dei signori Leoni, i gestori dell’unica pensione di Molina e Cristina, una bambina silenziosa che restava in disparte a osservare per ore i giochi degli altri ragazzi. Simone e Assia facevano parte della famiglia Battistelli che gestiva lo stabilimento balneare. Simone era l’ultimo dei tre figli maschi di Noè e Alda. Gli altri due fratelli erano adulti e avevano figli più o meno coetanei di Simone: Fabio, il maggiore, lavorava, si era sposato in Belgio e andava a Molina ad agosto, durante le ferie. Carlo abitava con la famiglia a Caldara. Era professore di Applicazioni Tecniche in una scuola media e d’estate si trasferiva allo stabilimento per aiutare il padre, che non poteva reggere da solo la stagione. Sua figlia Assia aveva la stessa età di Simone e i due ragazzi erano cresciuti insieme.
C’era poi Silvia Poli. Sua madre Rossella era originaria proprio di Molina, i genitori lavoravano come fattori presso i conti Artioli, famosi produttori di vino, mentre Silvia era nata e vissuta a Baia, cittadina costiera a nord di Ardenga famosa come stazione balneare e per la vita notturna. Rossella si era sposata giovane con un impiegato dei cantieri Trifase. Era il marito ad aver scelto di trasferire la famiglia a Baia in vista di un importante avanzamento di carriera. Ma Rossella preferiva Molina per il mare, e portava la figlia a casa dei genitori nella pausa estiva della scuola. Anche quando il signor Poli l’abbandonò all’improvviso e si costruì un’altra vita lontano da moglie e figlia, le due continuarono a trascorrervi l’estate.
I signori Grazioli tenevano in affitto annuale un appartamento di fronte all’ingresso della pineta. Giuditta, insegnante elementare, vi si trasferiva con i figli per i tre mesi estivi. Ennio Grazioli raggiungeva la famiglia ad agosto per le vacanze; altri giorni andava e veniva dalla città di Ardenga, distante una ventina di chilometri, dove svolgeva il suo lavoro di contabile per una ditta di costruzioni. I Grazioli erano i più anziani tra le coppie di genitori che frequentavano l’Aldebaran. Avevano perso il primo figlio diciannovenne per un incidente stradale e interpretato come segno di rinascita famigliare la venuta di Lucilla e quella, un anno dopo, di Marco.
Villeggianti erano a buon titolo coloro che frequentavano Molina solo per le vacanze. Avevano case di proprietà, in affitto estivo o annuale, un’estrazione sociale piccolo-borghese. Simone, Assia e Silvia provenivano da un contesto diverso, eppure avevano acquisito, per il consolidarsi dell’amicizia di anno in anno, il diritto a far parte della combriccola più esclusiva tra quelle dei frequentatori della località di mare. A Molina esisteva un unico stabilimento balneare, l’Aldebaran, tre file ordinate di ombrelloni tra spiagge libere e pineta. Una baracca di legno, due rimesse per le barche, una tavola calda con la terrazza sulla spiaggia. Qui i ragazzi crescevano senza pericoli né costrizioni.
Aldebaran era lo scenario delle loro estati. Vi avevano vissuto molte esperienze, alcune gioiose, altre tragiche. Per quanto la dimensione del gioco fosse predominante, libera e corale, niente prescindeva dalle loro storie famigliari. Se c’era già un destino, un disegno nelle loro vite, questo era comunque offuscato, messo in secondo piano dall’appartenenza a una determinata realtà e da una serie di eventi che, se in gran parte non dipendevano da loro, li avrebbero poi condizionati. Ce l’avrebbero mai fatta da soli? Esisteva una via d’uscita?
Intanto, mentre tutti prendevano strade diverse e spesso lontane, l’Aldebaran era ancora lì. Solo Silvia non si era mai mossa da Baia.
Resisteva lo stabilimento – sotto una nuova gestione – all’erosione delle spiagge, alle maree, alla moria di pini nella fascia di macchia alle sue spalle. Resisteva alle nuove regole edilizie, alle mutate leggi demaniali.
Era ancora lì nonostante loro non vi tornassero da anni.


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