“Il maragià di Firenze” sul Corriere Fiorentino
Il 30 novembre 1870 venivano sparse le ceneri di Rajaram Chuttraputti alla confluenza di Arno e Mugnone. Un episodio indelebile nella storia di Firenze, che aprì la strada alla cremazione nonostante le resistenze della Chiesa
Quella battaglia tra scienza e tradizione intorno alla pira del maharaja
Nel novembre di 150 anni fa a Firenze fu cremato il corpo del marajà di Kolhapur, dove oggi c’è il monumento dell’Indiano. E quel evento accelerò il dibattito scientifico sulla moderna cremazione.
Quindici anni dopo, nel 1885, fu inaugurato il tempio crematorio di Trespiano. I fiorentini lo chiamano familiarmente «l’Indiano»: è l’estrema propaggine occidentale del parco delle Cascine, meta di passeggiate romantiche o di più prosaiche merende nel punto di ristoro che fino a qualche anno fa era aperto nella palazzina delle guardie campestri. Deriva il suo nome da una storia curiosa, quella del giovane principe indiano Rajaram Chuttraputti, maharaja di Kolhapur, che morì improvvisamente a Firenze il 30 novembre del 1870, centocinquant’anni fa, e qui fu cremato alla confluenza di due corsi d’acqua, l’Arno e il Mugnone, come da tradizione induista. È una storia che molti conoscono anche perché nel 1874 il governo di Bombay volle eternarne il ricordo facendo erigere un monumento funebre di gusto orientaleggiante, che ancora oggi si conserva, lì dove fu arso il marajà. Meno nota è l’eco che quella singolare cerimonia ebbe nel mondo scientifico italiano. Seguita da decine persone che accorsero incuriosite alle Cascine, essa richiamò l’attenzione sul movimento che si batteva per legalizzare la cremazione e mettere fine all’inumazione e alla tumulazione. Due pratiche ritenute nocive dal punto di vista igienico-sanitario e nel lungo periodo insostenibili, perché la moltiplicazione dei cimiteri, dicevano i cremazionisti, avrebbe finito col soffocare la crescita delle città. Proprio a Firenze, fra l’altro, si era tenuto nel 1869 un grande congresso medico internazionale che per la prima volta aveva perorato in modo esplicito la causa della cremazione. La soluzione però non poteva essere quel rito arcaico che si era visto alle Cascine e aveva suscitato orrore persino nel medico milanese Gaetano Pini, strenuo sostenitore della cremazione, che così lo descrisse: «V’era legna a cataste, v’erano aromi d’ogni specie, e materie resinose, e foglie di betel, e profumi, e legno di sandalo polverizzato; ma con tutto questo il puzzo non faceva difetto, il friggere delle carni e dei grassi non mancava, ed il cadavere si contorceva come un serpente sotto l’azione del fuoco». Perché la cremazione potesse affermarsi su larga scala servivano tecniche e strumenti moderni, come quelli che stavano progettando scienziati e ingegneri, fra i quali il tedesco Siemens, che lo inserì fra i prodotti industriali dell’omoscienza nima azienda. La strada però era tracciata. Quindici anni dopo, nel 1885, fu inaugurato il tempio crematorio di Trespiano con l’incenerimento del corpo di una vecchia donna, morta nell’Arcispedale di Santa Maria Nuova, il cui cadavere non era stato reclamato da nessuno. Alla cerimonia presenziarono il sindaco, il principe Tommaso Corsini, e l’assessore all’Igiene del Comune di Firenze, i quali ebbero modo di constatare il «modo perfetto» con cui funzionava l’impianto. Di tutt’altro avviso gli abitanti del vicino borgo di Santa Maria a Trespiano, che per anni inondarono il Comune di reclami e petizioni per far chiudere il forno crematorio, causa a loro dire di esalazioni orrende e di fumi e ceneri che entravano nelle case. In realtà, quella che si giocò intorno al tempio crematorio di Trespiano fu una battaglia ideologica tra fautori della e del progresso da una parte, e conservatori e tradizionalisti dall’altra. Lo rivelano bene i nomi dei cremati che si possono leggere, sbiaditi e corrosi dal tempo, nelle lapidi delle tombe più antiche: ex garibaldini e repubblicani come il deputato Ettore Socci; il potente gran maestro della massoneria Adriano Lemmi e il figlio Silvano, che fu consigliere comunale a Firenze; il pistoiese Pompeo Ciotti, che fu segretario nazionale del Partito socialista, e Sebastiano Del Buono, anche lui socialista e segretario della Camera del Lavoro; l’insigne scienziato Ugo Schiff, corrispondente di Marx, a cui è intitolato il dipartimento di Chimica dell’Università di Firenze. Fra le donne la scrittrice Dora d’Istria e Jessie White Mario, la pasionaria del Risorgimento, amica di Mazzini e Garibaldi. E ancora decine di liberi pensatori, anarchici, ebrei ed evangelici, dal momento che la Chiesa cattolica condannò la cremazione e solo in tempi recenti, quando essa si è spogliata dell’originaria valenza anticlericale, l’ha riconosciuta come pratica legittima. Da vari anni la cremazione è in forte crescita, soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, e nel 2019 l’incidenza sul totale delle sepolture è stata di oltre il 30%. Anche in Toscana e a Firenze, dove nell’ottobre 2019 è stato inaugurato il nuovo tempio crematorio di Trespiano, si registra un’analoga tendenza. Com’è noto, la legge consente la dispersione delle ceneri purché a debita distanza dalle abitazioni. Ebbene, nella nostra città uno dei luoghi deputati è proprio l’Indiano, dove il Mugnone confluisce nell’Arno, a pochi passi dal monumento che ricorda il giovane principe che vi fu arso nel 1870.
Fulvio Conti
SULLE TRACCE DEL PRINCIPE MORTO TROPPO GIOVANE
In un libro di Paolo Ciampi le vicende del giovane indiano dei suoi funerali
Sono passati 150 dalla morte del ventenne maragià di Kolhaapur, Rajaram Chuttraputti, e forse anche per questo Paolo Ciampi si è deciso a scrivere il libro che aveva in testa da tempo. Anzi a gettarsi sulle tracce dell’Indiano — lottando ad esempio con i microfilm della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze — che da tempo lo stregava, lo interrogava quando arrivava in bicicletta in fondo alle Cascine o si fermava a prendere una birra all’ombra del monumento e del viadotto. Quella figura di pietra, tanta amata dai fiorentini che per sentito dire conoscono la sua storia, la morte prematura ed il rogo notturno nel parco alla confluenza di due fiumi, Arno e Mugnone, è il punto di partenza. Ma Ciampi è andato oltre e così è nato Il maragià di Firenze, Arkadia editore. Un doppio racconto, quello del maragià ragazzino che era partito dal suo piccolo regno per andare a visitare la Regina Vittoria a Londra e si era fermato al ritorno a Firenze allora Capitale d’Italia; e quello della ricerca dell’autore, del suo dialogo con Rajaram e con la presenza dell’India a Firenze, più importante di quanto si creda. Un viaggio anche da fermo per lo scrittore di libri di viaggio e di camminate — «quest’anno che ormai volge al termine, un anno intero da quando ho cominciato. Questa storia che forse non è una storia, ma piuttosto un modo di esorcizzare la paura», scrive Ciampi — in cui parla di morte, vita, poesia, momenti che non tornano, libri, film; e sogni, come quelli di ogni ventenne. Zigzagando tra ricerche in rete e rimandi culturali, tra la città cosmopolita ottocentesca e quella di oggi, le pagine ci portano al 1870: «Martedì mattina dopo una breve malattia cessava di vivere in Firenze alla grande Locanda della Pace, ove aveva preso stanza col suo seguito, Sua Altezza Reale il rajah Muharaja de Kolapore. Venne assistito dai professori Ghinozzi, Cipriani e Wilson ma nonostante le indefesse e intelligenti cure prestategli dai distintissimi medici dovè soccombere all’età di 20 anni», scrisse La Nazione. Poche righe ma poi le cose cambiarono e il funerale indù divenne un evento — con tutta la città accorsa nella notte al parco per vedere il rogo della pira di legna profumata — in cui prevalse la commozione ed il rispetto, la pietas, vinse la tolleranza sulla curiosità ed il sarcasmo smentendo per una volta lo scetticismo che è nel dna dei fiorentini. E quattro anni dopo la mamma di Rajaram arrivò a Firenze e commissionò il numero con il baldacchino che da allora ha dato nome al luogo, l’Indiano. Un amico per tutti i fiorenti e per Ciampi molto di più. Buon viaggio.
Mauro Bonciani