Il maragià di Firenze

Un estratto del romanzo di Paolo Ciampi

 

 

 

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La birra è un saluto al giugno che se ne va. Il taccuino, un proposito che stenta a ricavare parole. Se non altro il ta-volo concede un’impressione di solidità.
Sono qui, al bar della palazzina, dove finisce il parco, dove anche Firenze sembra finire. Distendo le gambe, la ghiaia scricchiola sotto i piedi. Resisto alla tentazione di bere dalla bottiglia, verso nel boccale. Mi perdo nei riflessi d’ambra, nelle gocce che scendono dal vetro, la schiuma che pare panna.
Un cellulare, cordone da tagliare. La brezza, coperta per i miei pensieri. Gli alberi, mani che salutano.
Accosto alle labbra. Il primo sorso è eccesso, il secondo è già riconciliazione. La vita può essere meno complicata, se la consideri dal punto di vista che può offrirti una sedia. In particolare d’estate, sul far della sera, quando il bollore si placa e le ombre si allungano. Passo la lingua sulle labbra, respiro una singolare pace. Lascio scivolare la penna su un foglio, come per cercare un varco. Scarabocchi, ghirigori, un punto interrogativo che quasi conclude una circonferenza. Non una lettera ed è quasi un sollievo: non sono obbligato all’alfabeto.
E per dirla tutta: ho già raccontato tante storie, forse troppe. Non smanio per un altro libro, non devo per forza insistere come scrittore, se mai lo sono stato.
La fontana mi riporta a lampi di infanzia. La prima pagina del giornale, sul tavolo accanto, è un’opportuna distrazione. Il brusio non mi infastidisce.
Ordino una seconda birra, giusto per struggermi in qualcosa che forse è nostalgia e forse no. In ogni caso adoro la nostalgia, è il mio sentimento. Mi predispone al ritorno, viaggiatore anche da fermo. E per sentirmi tale mi aiuta questo ponte dietro di me che è l’ultimo ponte, ancora Firenze e non più Firenze. Così diverso dagli altri che lo precedono. Un’unica campata e a sostenerla cavi di acciaio. Stralli, si chiamano. Sono fitta di dolore al ricordo di Genova. Però anche indizio o sospiro di California.
Viavai di biciclette, sensazione di libertà. Musica in sottofondo, qualcosa di simile a un rimorso. A pochi passi da me un bambino nella culla, ventaglio di possibilità.
Scolo la birra, mi alzo con fare definitivo, avanzo di qualche passo verso il giardinetto. Non cerco una panchina o la ringhiera da cui guardare qualcosa ancora, cerco piuttosto il giusto allineamento tra me e il paesaggio. Potrei essere un druido nel rito del solstizio. O un sacerdote maya, in cima alla sua piramide. L’ultimo Sole è un disco rosso che stende i suoi colori. Incendia il cielo, sottrae consistenza alle colline intorno. Diluisce i gesti e conferisce una singolare intensità ai pensieri.
È appena calato sotto il baldacchino. Le colonne gli sono cornice, la cupola verde sembra fatta apposta per questo momento.
I raggi sorprendono il busto alle spalle. Lasciano in ombra i lineamenti, ma sanno di carezza prima del sonno. Quindi mi raggiungono e così provano a cucire due destini.
Il mio e quello dell’uomo che ora è enigma di pietra. Per tutti l’Indiano.
C’è una ragione per cui sono qui.
Questa ragione, il libro che forse scriverò. Questo tramonto, quasi una benedizione. Questa luce, sipario che si apre.
C’è ancora posto, signori e signore. Questa è una storia fiorentina.
È già ora di cena, devo andare. Alla rastrelliera delle bici armeggio con la catena. Scandisco gesti lenti, che mi lasciano modo di guardarmi intorno.
Una storia fiorentina, rifletto, che dovrebbe avere Ponte Vecchio o il Cupolone sullo sfondo. Prevedere una qualche scena agli Uffizi, oppure tra le tombe dei grandi d’Italia. Transitare per almeno una delle vie dell’Oltrarno, la vita di una volta come attrattiva. A Room with a View, “Camera con vista”: non solo un film, ma ciò che da sempre si esige da Firenze.
Non può accontentarsi di periferie una storia fiorentina. E se bastano condomini e panchine meglio andare da un’altra parte. La bellezza per sfondo, più qualche pennellata di colore locale, tipo una carrozza a cavallo oppure una mescita di vini: questo pretende una storia fiorentina.
Mica le Cascine, il parco che lambisce l’Arno prima che il fiume vada per conto suo. Bene che vada il polmone verde di Firenze, la più nobile delle definizioni.
Rimugino e mentre rimugino gocciolano ricordi sulla quiete di questa sera.
Ero un ragazzo e sui giornali gridare al degrado delle Cascine era un evergreen, più verde del verde dei suoi prati. Spacciatori e puttane, di questo si parlava.
Brutta fine, per quella che secoli prima era stata la tenuta agricola dei Medici, montagna scesa a valle dove si producevano latte e formaggio. Cacio e Cascine, nomi che il passato trasmette, meticoloso come si presume lo sia un ufficio anagrafe.
Da qualche anno, certo, le cose sono di nuovo cambiate. Ci sono i chioschi dei gelati, i ragazzi con i pattini, gli attrezzi per i percorsi salute. Gli altoparlanti della piscina chiamano al party a bordo vasca, le giostre tracciano incessanti cerchi in aria, ritmo della malinconia che si traveste da solennità. Non è il Central Park versione toscana, concordo, però è già qualcosa.
Libero la ruota con una certa fatica. Qualche traccia di grasso mi resta sulle dita. Richiudo il lucchetto sotto il sellino, faccio due passi indietro, salto su. Punto i piedi a terra, esito, non ho fretta.
Le Cascine: anche tra i miei compagni di Università, rampolli di famiglie a modo, certe volte aleggiava l’idea del puttan tour. E via sul motorino, vedere e non toccare, semmai vedere e irridere, le sciocche passioni dell’altro secolo. Il parco di notte, l’altra Firenze, più sordida e conturbante. Con mitologie approssimative su transex brasiliani destinate a rimanere tali, senza mai riscontro. Chi viene con noi?
E poi le partite di calcio improvvisate, pomeriggi interi senza triplice fischio finale, i maglioni per segnare le porte e chi c’è c’è. Le feste con le grigliate e il vino delle cooperative. I mitici concerti sui prati, concerti, intendo, di gente come Peter Gabriel, Lou Reed, i Radiohead. Biglietti conservati come reliquie.
Comincio a pedalare, per ora senza dirigermi da nessuna parte. Traccio un giro largo per salutare il Sole, i miei boccali vuoti, e soprattutto lui, l’Indiano.
Sto per dargli la schiena, senza che ci si sia presentati. Una vita che ci si incrocia e ancora adopero la terza persona.
Nemmeno questa volta ce l’abbiamo fatta. Malgrado le birre, malgrado il tramonto da druido.
È sempre così, figurarsi se vuole ascoltarmi. Con quell’aria rigida, anzi, altezzosa. Lui sarà di pietra, ma ai suoi occhi io sono addirittura invisibile. Evidente che punta oltre, che punta lontano. Non è tipo da abbassare lo sguardo.
Vedremo quando ritorno. Presto, questo è sicuro.
Le ruote scivolano sull’asfalto, le gambe sono l’allegria di una giovinezza che di tanto in tanto si riaffaccia. Pregusto la cena che mi aspetta a casa, mi scopro leggero. Sull’altro argine i primi lampioni accesi sono un porto sicuro per la nave al rientro. Che idea.
Una storia fiorentina, rimugino. In che senso una storia fiorentina?
Non so, proprio non so. Non so se la voglio raccontare.
È dall’altro giorno, a fine giugno, che ci penso sopra. Dalle due birre in fondo alle Cascine. Anzi, da prima ancora. Da quel libro che qualche settimana prima ho presentato alla palazzina, una delle tante cose che si combinano a Firenze in questi mesi. Sono sufficienti quattro tavolini e un microfono, la gente poi si vedrà.
Dalla Liguria era sceso Marino, un amico scrittore, con il suo ultimo romanzo. Ora io e lui eravamo di fronte a un paio di amici e a qualche altro avventore, palesemente più attratto da una generosa dose di spritz che dalle nostre chiacchiere. Noi invece ci ostinavamo a conversare di vette che voltano le spalle al mare, di sconfinate distese in Argentina, di persone taciturne che appartengono a quei luoghi.
A un certo punto, vai a sapere perché, mi ero girato e avevo fatto un cenno a una figura di pietra che stava nelle vicinanze, appena a lato, come una persona tra noi. L’Indiano, eccolo lì. Lo conoscete? Sì, no, forse. Più no che sì in ogni caso. Ecco, ho sospirato, prima o poi ci scriverò un libro. Sicuro, da questa statua spremerò una storia.
Tirata fuori così, come un asso nella manica. Chissà che mi immaginavo. Che gli occhi si sollevassero dai bicchieri in un moto di stupore. Che fioccassero le domande. Che l’amico scrittore ligure ci ragionasse. Che qualcuno addirittura carezzasse la mia vanità. «Bravo, un altro libro.» Con il tono giusto, certo, non avesse a suonare in un altro modo:«Non ti sembra di esagerare?»
In ogni caso l’annuncio era scivolato sull’acqua. A cascarci era stata solo una persona: il sottoscritto.
Vai a sapere se avrò voglia e capacità di dargli seguito. O se invece lascerò perdere, secondo copione, il solito chiacchierare troppo e stringere troppo poco.
Comunque sono ancora qui, alle prese con quanto quella volta mi è scappato di dire. Anche l’altra sera con l’Indiano è stato un arrivederci, del tipo che ci si scambia in treno, quando stiamo per scendere alla stazione. Ci si alza, si saluta, si va. Senza impegno e senza conseguenze.
Un arrivederci così, giusto per non tagliare di netto. Però dentro di me non è stato un vero arrivederci.
L’Indiano sarà pure quella statua in fondo a Firenze, quello sguardo che non mi guarda, quell’espressione che non si concede. Però è anche una mano che non si stacca dopo che ci si è presentati.
Così anche su questa mattina si distende la stessa domanda. Questa storia che poi non è una storia: la voglio proprio raccontare?
E fosse un altro giorno, sarei già alle prese con i minuti contati e gli appuntamenti in agenda. Dovrei ragionare sulle carte da infilare nello zaino e magari dare un’occhiata alle previsioni meteo. Quindi mettere in fila le solite operazioni, senza sgarrare. Acqua calda al punto giusto, per un tè senza ustioni. Spremuta di pompelmo e occhio a non sporcarsi. Sbirciatina al tablet per le notizie, e via, pettine e spazzolino. Oggi giacca? E quale, su questa camicia che non si abbina a niente? La cravatta no, non è in questione, non lo è stata nemmeno per il matrimonio.
Invece è sabato, una mattina pigra e rilassata. Ho messo il bollitore sul fornello e sono sceso all’edicola. Ora sul tavolo di cucina c’è una parvenza d’ordine: fette biscottate sulla sinistra, giornale sulla destra. Avrò modo persino di leggere lo sport, privilegio da scioperato.
In una mattina pigra e rilassata, si sa, a volte i pensieri volano via come farfalle, ma altre volte non se ne vanno neanche con le cannonate.
L’Indiano è sempre con me, non mi molla. È tarlo che scava, è canto che sfuma indistinto. Io invece sono il legno mangiato, sono la canna di bambù che si piega.
Se solo fosse uno degli indiani di quando ero bambino… Di quelli che incontravo nei film western, nelle storie di Tex Willer, di Zagor e anche di Blek Macigno, sì, anche di Blek Macigno, che mi sa oggi non conosce più nessuno. Se solo fosse uno di loro non sarei tanto confuso. Datemi un Sioux, un Apache, meglio ancora un Navajo. Datemi le praterie americane: e certo mi sentirei un po’ di più a casa.
Quasi quasi, in questa mattina pigra e rilassata, viene voglia di inforcare di nuovo la bici e andarlo a trovare, l’Indiano. Dirgliela in faccia questa cosa. Magari passando finalmente al tu, senza chiedergli permesso.
«Potevi stare dentro un film di John Wayne», gli direi.
«Potevi farti massacrare dal Settimo Cavalleggeri. Potevi seppellire il tuo cuore a Wounded Knee. Piuttosto che farti fare un monumento in riva all’Arno.» E no, certo che no. Non gli direi così. Almeno non fino a confessargli che preferisco un indiano che non è un indiano, anzi, che indiano lo è solo per l’abbaglio di chi cercò l’India e incappò nell’America.
Gliela metterei per bene. «Tranquillo», gli direi, «non è che sei tu il problema. Figurarsi se ce l’ho con te perché sei un indiano vero.»
Però vedi, anche gli altri un giorno capitarono a Firenze. Ai tempi in cui il Selvaggio West già si era fatto circo. Buffalo Bill, proprio lui, piantò le tende vicino a casa mia, sotto lo stadio. Allo stesso modo degli Orfei, quando ero ancora bambino, con i loro pagliacci e i loro acrobati.
Dello spettacolo di Buffalo Bill so meno, eppure potrei girarci intorno a lungo. Di te invece che ho da dire? Anche solo per allungare il brodo, per far sì che questa sia davvero una storia.
Questo è il problema. Sarebbe già un bel passo avanti, se solo tu smettessi di fare la statua.
Così trascurata poi: piazzata lì e dimenticata.


Arkadia Editore

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