“L’anno che Bartolo decise di morire” su Palermo – la Repubblica
La cognizione del dolore per l’amico scomparso
Gentili lettori, qual è il prezzo del dolore? Quanto ci faranno pagare quest’esperienza? Chi sarà in grado di compenetrarsi? «Non ti assolverà nessuno per questo sentire che hai, pagherai tutti i debiti, forse qualcuno in più, perché chi sente il dolore non fa tante smancerie e parla dosato, non voglio dire che è muto ma insomma, il dolore non lo nomina nemmeno». Di contro, la sofferenza è divenuta terreno di rappresentazione fittizia, da sciorirarne in TV, in un salottino pomeridiano. Di questi tempi non è frequente. Siamo diventati esperti del dolore, lo abbiamo canonizzato, salvo poi a dimenticarcene quando non ci tange, quando a soffrire è proprio chi ci sta più vicino. «C’è una grande differenza tra il proprio dolore e quello che appartiene a un altro, ma sentire che non ti appartiene significa già molto, e per sentirlo intendo non a chiacchiere, voglio dire vederlo compiersi, inquadrarlo nel tempo, nella quotidianità, questo è sentire! Solo chi sente può aiutare!». Ecco, appunto, chi sente? Siamo affetti da sordità emotiva e questi due passi, tratti da “L’anno che Bartolo decise di morire”, di Valentina Di Cesare, uscito per Arkadia Editore, inurbano il lettore in uno scenario d’incapacità empatica, d’inammissibilità dell’umano patire. La vicenda prende avvio da un gruppo di amici come ce ne sono tanti, in una normale provincia italiana, (è l’Abruzzo ma potrebbe essere qualsiasi altro territorio), Vito, Renzo, Roberto, Giovanni, Lucio, ciascuno nella propria bolla esistenziale fatta di quotidianità e aspirazioni. Sembrano esserci l’uno per l’altro, entrare in relazione, comprendere ansie e condividere levità, ma il punto è Lucio, perché Lucio si suicida. Il dramma corale, che fa di questa storia un vanto polifonico, si nutre delle suggestioni dei protagonisti e Valentina Di Cesare è abile nel far convergere da un punto all’altro della vicenda le voci, i registri, i comportamenti, senza creare appannamenti ma, anzi, reagendo con vigore al concentrarsi di temi e azioni. Bartolo a un certo punto sparisce, decide di morire, non importa se fisicamente o moralmente, quello che conta è la sua dipartita dal mondo degli affetti e delle incombenze. Chi lo ha avuto come amico assiste da spettatore, non si preoccupa di scostare il sipario. Le copertine del travaglio interiore sono difficili da penetrare da chi non ha dimestichezza con i sentimenti. Di Cesare esprime con garbo e misurata complessità i destini minimi degli avventori del luogo del dolore, addirittura puntellando con pochi tratti le psicologie, ma sufficienti a delinearne i profili impotenti, inani. Solo un personaggio esubera per disperante consapevolezza ed è il maestro Nino, disilluso e conscio del carico di visionaria lucidità di Bartolo, esprime la coscienza equanime, il mentore, la luce nel buio. Toccherà a lui, corifeo di questa tragedia, annunziare che l’amico di tutti, quel ragazzo che ha sempre sentito su di sé il loro dolore del mondo, ha deciso di morire.
L’Antiquario vi saluta,
Angelo Di Liberto.
Angelo Di Liberto