“I rifugi della memoria” su I libri di Mompracem
CON CANCHO, NEI RIFUGI DELLA MEMORIA
Il primo libro di José Luis Cancho tradotto in Italia, I rifugi della memoria (Arkadia Editore, 2020, traduzione di Marino Magliani) ci riporta agli anni di piombo in Spagna, quando la polizia segreta del regime torturava gli oppositori, i terroristi dell’ETA facevano saltare in aria il primo ministro Carrero Blanco e il Partito Comunista di Santiago Carrillo era ancora fuori legge. Men che meno poteva agire alla luce del sole il Partido del Trabajo de España, organizzazione nella quale militava l’autore, un movimento clandestino che potremmo definire extraparlamentare, se fuori dal Parlamento in quel periodo non ci fosse stata la sinistra tout court. È in questo contesto che si colloca la narrazione autobiografica di Cancho, che riporta il lettore italiano a un immediato parallelismo con i nostri, di anni Settanta, rafforzato dall’immagine iniziale, tragicamente iconica: un interrogatorio brutale finito con una simulazione di suicidio da parte di quattro poliziotti abituati a farla franca, il corpo seviziato del detenuto defenestrato dal terzo piano di un commissariato di polizia. A differenza di Enrique Ruano, un altro studente ucciso in quegli anni (nel gennaio del 1969, un mese dopo la defenestrazione di Giuseppe Pinelli a Milano), Cancho sopravvisse, e dopo una settimana di coma, sei mesi di immobilità e due anni di prigione durante i quali dovette imparare a camminare di nuovo, tornò in libertà con l’amnistia concessa dopo la morte di Francisco Franco. Siamo nel 1978. La forza di quella scena d’apertura, tuttavia, sarebbe potuta esser dissipata da una narrazione diversa da quella di Cancho, che ne fa invece il centro nevralgico di una prosa essenziale, estremamente concisa, che si avvicina alla poesia. Se si dovesse definire José Luis Cancho (Valladolid, 1952), in effetti, non si saprebbe quale termine usare: superstite, esule, ex militante o poeta, ma alle strette sceglieremmo l’ultimo, che non contraddice, anzi giustifica tutti gli altri. Attivista politico che lasciò la lotta per vagabondare per il mondo, professore che disertò la cattedra per educare se stesso, sembra esser sopravvissuto per coltivare la memoria delle sue molte fughe:
Una volta di più scommisi sul piacere di partire, di essere un altro, sconosciuto agli altri e anche a me stesso.
L’esperienza del carcere è centrale ne I rifugi della memoria, sia nella scelta di abbandonare la militanza, che l’autore non rinnega, sia in quella di dimettersi dal lavoro che finì per fare senza convinzione. Il partito gli aveva assegnato il compito di organizzare una cellula nella facoltà di Magistero, e così divenne insegnante. Il ricordo del carcere, delle ore d’isolamento immerse nella lettura e nel raccoglimento (Oscar Wilde, De Profundis) è la principale spinta verso la libertà. Non solo perché al suo interno, nel settore dei detenuti politici, Cancho conobbe professori di ogni materia dai quali appresa nozioni di sindacalismo, storia politica, storia dell’economia e letteratura, ma soprattutto perché una volta libero fu incapace di trattare da avversari politici i suoi vecchi compagni di cella. In questo senso, il libro è anche la constatazione del fallimento di un settarismo soffocante:
Mi domandavo se le piccole, per non dire ridicole, differenze che tiravamo fuori continuamente contro questo o quel gruppo comunista non fossero in realtà altro che un modo di soddisfare le nostre tendenze aggressive e al tempo stesso una ricetta per tenere insieme i membri del nostro gruppo.
Scrive ricordandosi di Sigmund Freud e del suo “narcisismo delle minime differenze”. Disperatamente legato a un’utopia di libertà, alla concezione di un momento presente da afferrare per il collo e maneggiarlo come se fosse a mia completa disposizione, parte per l’America Latina e conduce una vita nomade attraverso l’Argentina, l’Ecuador, il Peru, la Bolivia, il Nicaragua e il Cile, dove assiste alla “miracolosa” fioritura del deserto di Atacama. Quel girovagare estinse la sua sete di spazio, e lo indusse a concentrarsi sul tempo, sul suo tempo, sulla memoria dalla quale è nato questo autoritratto frammentario nel quale l’autore conclude ogni capitolo con una serie di episodi e incontri, gusti personali, stati d’animo, tratti del carattere, rapidissime confessioni spiazzanti e suggestive. La storia che si racconta, scrive il messicano Guillermo Fadanelli, è anzitutto la storia della lingua con cui la si racconta. La lingua di Luis Cancho si può ottenere solo dopo essersi ribellato a tutto, tranne che al silenzio. È al silenzio, e alla tessitura di una rispettosa relazione con le parole, che l’autore dedica buona parte della sua opera: Voglio scrivere come se fossi morto, scrive, e sembra esserci riuscito. I modelli di questo libro, breve e necessario nella letteratura spagnola contemporanea, costellata di autofiction più o meno edulcorate, sono, per stessa ammissione di Cancho, un fotografo e un pittore: Édouard Levé e Joe Brainard (autori, rispettivamente, di Autoportrait e Mi ricordo). Non a caso, la lingua con cui si descrivono i passaggi della sua radicale ricerca di solitudine, ha la densità e la brevità delle immagini trascritte in versi. La bellezza di questo libro risiede, in particolare, nella disinteressata magnanimità con cui si trattano gli avvenimenti narrati. Non c’è alcun regolamento di conti, e questa è la miglior prova che il viaggio intrapreso da Luis Cancho è approdato nel luogo giusto, quello di uno scrittore capace di trasformare una vile defenestrazione in un volo volontario, di trasfigurare la tetra realtà in una personale verità piena di luce.
Alessandro Gianetti
Il link alla recensione su I libri di Mompracem: https://bit.ly/3lvoUG0