“Caribe” su Alibi Online

DA ARKADIA EDITORE “CARIBE” DI FERNANDO VELÁZQUEZ MEDINA

Non mi considero più da parecchio tempo “ispanista militante”, ma ho mantenuto il gusto per alcuni libri di qualità che ci arrivano dall’America Latina o dalla Spagna. È il caso di “Caribe”, del cubano Fernando Velázquez Medina (titolo originale: El mar de los caníbales): romanzo sfavillante, pieno di umori e di ammicchi, anche ironici, eccellentemente reso in un italiano fluido e impeccabile da Riccardo Ferrazzi e Marino Magliani. I traduttori sfoderano una terminologia tecnica assai precisa, per indicare il tipo di nave, le sue varie parti e le attività della navigazione, le armi (da fuoco e da taglio), gli esemplari di flora e fauna, ecc… Efficace anche la resa di una diffusissima imprecazione di lingua spagnola, “Porco dieci!” (per “Me cago en diez!”). L’ambientazione della vicenda è “storica”, collocandosi 150 anni dopo la conquista spagnola di quelle terre, ossia verso la metà del XVII secolo. E il libro mostra la stessa impostazione dei grandi (anche come mole…) testi di quel periodo, destinati ad alleviare, con le loro accattivanti vicende, il tedio delle lunghe navigazioni transoceaniche a vela – il Don Chisciotte, per esempio. Innanzitutto, perché questo è il primo volume di una trilogia, in cui vengono narrate (un po’ in terza, e il resto in prima persona) le complesse andanzas di un contrabbandiere mulatto che opera sulla costa di Cuba. Poi perché nella narrazione principale sono inserite (come avviene per il Cuento del Cautivo, il “Racconto del Prigioniero”, nel Chisciotte) digressioni diegetiche relative ad altri personaggi: vedi, qui, il “racconto del soldato meticcio” (pag. 178). Se la vicenda è storica, le allusioni sono però anche contemporanee. Oltre al pirata Francis Drake e a William Shakespeare, del quale il protagonista si dichiara “amico” (quasi fosse una prefigurazione di Forrest Gump, egli sembra aver incontrato tutta una serie di “vip” dell’epoca…), compaiono, per esempio, frate Uberto Eco di Alessandria (che ricorda il personaggio principale del libro principale del mio illustre concittadino, ed altrove è denominato anche “Uberto da Bologna, perché aveva insegnato in quella Università”) e “uno scrittore, forse americano, forse francese, chiamato Alejandro Carpintero”: ossia, Alejo Carpentier, autore del magnifico Los pasos perdidos, “magistrale relazione di un’altra spedizione nelle selva”, come viene qui definito. A quanto avviene nel racconto di Carpentier (uno dei libri a me più cari, tra l’altro) rimanda anche la lettura dell’Odissea, evocata in più punti. E che dire dei richiami a I tre moschettieri di Dumas padre (“uno per tutti e tutti per uno, anche se non ricordo dove ho sentito questa frase”), all’Inferno di Dante (“un gran verme”), a Francisco de Quevedo (“come scrisse un poeta che conobbi più tardi, ‘potente cavaliere è il signor Denaro’” –poderoso caballero es don Dinero) e persino a Roberto Vecchioni (“Su, su, cavallo, corri verso la morte”)? Anche il duplice nome della collana in cui il romanzo è uscito suscita cortocircuiti letterari: Xamaica è un titolo di Ricardo Güiraldes, autore argentino del celebre Don Segundo Sombra sulla vita dei gauchos, mentre El Jarama era un romanzo neorealista (un po’ tedioso, a dire il vero) dello scrittore italo-spagnolo Rafael Sánchez Ferlosio. Ma altre associazioni mi corrono alla mente, risfogliando le pagine a lettura terminata. L’episodio in cui la comitiva di indios e negros cimarrones raggiunge, attraversando un lungo tunnel, la città nascosta fra i monti si situa in un territorio letterario prossimo al fantasy, qualcosa tra Il Signore degli Anelli e la favolosa Shangri-la del romanzo di James Hilton (con pluripremiata trasposizione cinematografica di Frank Capra) Orizzonte perduto. La navigazione caraibica, l’aggressione degli indigeni e la descrizione delle loro piroghe mi fanno pensare al poema Omeros, di Derek Walcott: “Poi i tronchi, impazienti di diventare canoe,/ararono i frangenti di cespugli, scavando solchi/nei massi, non sentivano dentro la morte, ma lo scopo:/fare da tetto al mare, essere scafi. Poi, sulla spiaggia,/stesero le braci nelle cavità scalpellate con l’ascia”. E le rovine rinvenute nella selva rimandano a una strofa del Canto general di Neruda: “Maya, voi avevate rovesciato/l’albero della conoscenza./Con effluvio di razze frumentarie/si innalzavano le strutture/dell’esame e della morte,/e, gettandovi spose d’oro,/scrutavate nelle cisterne (cenotes, termine che viene illustrato nel romanzo: n.d.r.)/la permanenza dei germi”. Fernando Velázquez Medina (non posso far a meno di notare, en passant, che Fernando Medina è il nome del Sindaco di Lisbona, mentre al pittore Velázquez è dedicata un’altra nota canzone di Vecchioni, poc’anzi citato) è anche critico cinematografico – si vedano i richiami filmici ipotizzati in precedenza. Da Jurassic Park sembra aver fatto uscire il rettile gigantesco che a un certo punto aggredisce il gruppo di avventurieri, e da certe pellicole d’azione ha senz’altro mutuato (con intenti parodistici, tuttavia) l’’mprovvisa comparsa del “cattivo”, che viene a minacciare il protagonista dove e quando questi meno se lo aspetta… Non trascrivo, stavolta, brani del libro, e del resto non saprei quali scegliere, dato il livello costante della sua prosa. Ma ne raccomando di cuore la lettura. Vi garantisco che sarà davvero tempo ben impiegato.

Marco Grassano


Arkadia Editore

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