“Caribe” su La poesia e lo spirito
“Caribe” di Fernando Velázquez Medina
Viviamo in un’epoca in cui si è già detto tutto, non ci meravigliamo quindi se in un romanzo affiorano in maniera esplicita o implicita riferimenti, echi e suggestioni che ci riportano ad altre letture, come succede in Caribe di Fernando Velázquez Medina (Arkadia Editore, 17 €), del resto per quanto uno scrittore voglia apparire innovatore o trasgressivo non potrà mai del tutto esimersi o sganciarsi dalla tradizione letteraria e culturale, che attraverso letture ed esperienze dirette o mediate è filtrata e sedimentata in lui.
Dopo questa doverosa premessa, su cui torneremo in seguito con esemplificazioni più chiare ed esatte, va detto che il titolo, Caribe, ci catapulta nel Mar dei Caraibi o dei Cannibali, crogiuolo di razze e di civiltà, in un’epoca, per giunta, la seconda metà del 1500, in cui queste isole e le terre dell’America centro-meridionale, o Indie occidentali come venivano chiamate allora, furono scenario di violenze, saccheggi e uccisioni da parte dei Conquistadores.
Inizialmente Caribe si presenta come un romanzo storico per la felice commistione di elementi, situazioni e personaggi reali con invenzioni di una fervida immaginazione, ma procedendo nella lettura ci si accorge dell’abilità dell’autore, di fondere e rivisitare, nel crogiuolo della sua fantasia, generi e tecniche letterarie differenti: dal romanzo di formazione al pamphlet politico, dal racconto avventuroso (predominante) alla riflessione morale.
Il protagonista Diego Valdes, io narrante oltre che io agente, vive all’Avana, al centro di un arcipelago: “nel Mar delle Antille o delle Lenticchie, come se fosse una minestra o una zuppa che esala un vapore intenso e le isole fossero grani che galleggiano sulla superficie.”
I genitori gestiscono un’osteria e Diego fin da piccolo, oltre ad affinare il palato, rimane incantato ad ascoltare i racconti dei marinai che dinanzi a una pinta di birra o un bicchiere di rhum favoleggiano di mondi lontani, di mostri marini, di leggende meravigliose e terrificanti, che hanno pur sempre un fondo di verità, perché, come dice l’autore: “Mascherare la realtà è più semplice che inventarne una nuova.” Quest’esperienza adolescenziale, corroborata e consolidata dalla lettura di poemi cavallereschi e chanson de geste, fa di lui un vero affabulatore, dote di cui si servirà per placare l’ansia e vincere la paura nei momenti cruciali del suo cammino. La sua vita scorre tranquilla tra lo studio, i giochi e le immersioni in acqua quando l’incontro occasionale con una bella fanciulla non solo mette a repentaglio la sua vita ma rivoluziona tutta la sua esistenza. Accusato ingiustamente di omicidio dall’inquisitore, De Landa, per la falsa testimonianza della stessa ragazza, è costretto a fuggire con l’aiuto e la protezione di un rappresentante di un ordine religioso di Alessandria d’Egitto, Uberto Eco, al cui seguito rimarrà fino alla fine del romanzo.
Il nome stesso di questa singolare figura di pensatore, erudito e condottiero rimanda all’omonimo scrittore e intellettuale italiano e nello specifico a Il nome della rosa; Uberto richiama alla lontana Guglielmo da Baskerville e Diego di conseguenza, che lo segue e lo elegge a suo precettore, Adso da Melk. Anche la polemica implicita tra Francescani e Domenicani ci richiama alla mente quella, all’interno de Il nome della rosa, tra spirituali e conventuali sulla necessità o meno di praticare la povertà.
Inizia a questo punto il viaggio, che – a ben guardare – è il tema di fondo di Caribe e che, a conferma ancora una volta delle tante suggestioni, assimilate anche inconsciamente, ci riporta al viaggio dell’Ulisse dantesco: “Considerate la vostra semenza: // Fatti non foste a viver come bruti, // ma per seguire vertude e canoscenza.”
Uberto, infatti, rivolto a Diego dice testualmente:
“Il nostro viaggio non è di esplorazione, per fondare colonie, commerciare o razziare. È un viaggio in cerca di conoscenze, per ampliare gli orizzonti e la sapienza dell’umanità.”
Il romanzo si divide in due parti, nella prima viene descritto il viaggio per mare attraverso acque burrascose e infide, popolate da mostri marini e dalla terribile balena bianca. Come non vedere in questo episodio un’eco del più vasto poema che sia mai stato scritto sul mare, Moby Dick di H. Melville. Nella seconda parte la vicenda si svolge sulla terraferma, nello Yucatan, laddove la spedizione, in cerca di tracce della civiltà Maya, s’inoltra nella selva oscura, intricata e minacciosa di sapore vagamente dantesco, dove incontra non tre fiere ma tanti animali sconosciuti e pericolosi, vampiri che succhiano il sangue, serpenti grossi come tronchi d’albero e il leggendario serpente piumato della tradizione Maya, ed è questo il momento di massima tensione o spannung che dir si voglia.
Non bisogna credere che Caribe sia soltanto un romanzo di avventure, perché accanto alle disavventure dei protagonisti si possono apprezzare tanti altri motivi: l’amore per il cibo (alcune ricette sono veramente stuzzicanti), l’interesse per l’arte e l’architettura, religiosa, civile o militare, la denuncia della crudeltà del tribunale dell’Inquisizione e la polemica nei confronti dell’oscurantismo della Chiesa di Roma.
Il romanzo, se si escludono i primi due capitoli a focalizzazione zero, in cui si fissano le coordinate spazio-temporali e le atmosfere politiche e culturali del periodo, è una lunga analessi in cui il narratore rievoca, a distanza di anni, le peripezie di cui è stato protagonista al seguito di Uberto Eco. Durante il viaggio, in una sosta notturna intorno al fuoco, il narratore di primo grado cede il posto a un narratore di secondo grado, il cui racconto dura una trentina di pagine, per cui si può parlare di narrazione ad incastro e lo si rileva non per sfoggio di erudizione ma per sottolineare la struttura complessa del romanzo e la sua ben oliata macchina narrativa.
La prosa, merito anche dei traduttori, Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi, è chiara, puntuale e precisa anche nella decodificazione di termini dei linguaggi locali, mentre a livello stilistico e retorico prevalgono due figure, solo in apparenza contrastanti: l’enumerazione, l’elenco, cioè, di oggetti, animali o piante, in un approccio prevalentemente scientifico che bandisca qualsiasi forma di approssimazione e l’iperbole nella ricerca del meraviglioso o terrificante, che esercita un suo indiscutibile fascino.
Vorrei concludere questa mia disamina con una riflessione del maestro Uberto Eco; a pagina 86 si legge testualmente:
“I veri mostri sono quelli che giustificano le loro malefatte con la religione, o la patria o altre stupidaggini, per dissimulare i loro istinti assassini e la loro iniquità. Quelli sono i mostri di cui devi aver paura.”
Francesco Improta