“La forma del desiderio” su Storygenius
Parliamo della raccolta “La forma del desiderio” con Andrea Magno
“Per scrivere ho solo bisogno di vivere, di curiosare, di conoscere, di dialogare e confrontarmi”.
Andrea Magno torna in libreria con una raccolta di poesie dal titolo La forma del desiderio (Arkadia 2024); quando l’ho incontrato, un paio d’anni fa a un festival, Magno non faceva niente per sembrare un poeta, non si atteggiava – come si dice a Roma – e non tentava di sembrare aulico o lirico fuori ordinanza. Ho preso il suo libro e l’ho aperto a caso. Ho letto qualche parola: “– cominciare – / è una parola bellissima”, e mi è venuta voglia di farci quattro chiacchierare su poesie, poesia e poeti.
Buongiorno Andrea, la tua prima raccolta poetica è del 2014 (Sotto falso nome), dieci anni fa. Questo nuovo libro, La forma del desiderio, celebra un anniversario?
Buongiorno e grazie Paolo, e un grazie anche a chi ci leggerà. Anche se può sembrare, a quasi dieci anni esatti dal mio primo libro, non si celebra nessun anniversario, che poi gli anniversari mi sanno anche di commemorazione. In mezzo ce ne sono stati altri due, parlerei di una cadenza quasi triennale, in fondo seguo il consiglio del buon Enrico Nascimbeni. All’uscita del primo libro mi disse che un libro è come un figlio e che come tale va seguito. I libri di poesia, in particolare, hanno vita lunga bisogna dare loro attenzione per almeno due anni. È in pratica quello che ho fatto. La poesia ha tempi lunghi di sedimentazione. Più che un anniversario io lo sento come una festa, per me è la festa delle parole, le mie.
Quando hai scoperto la tua passione per la scrittura poetica?
Per la lettura non c’è una data precisa. Negli anni del liceo ho iniziato leggendo Vincenzo Caldarelli e poi Montale, Salinas, Quasimodo, Bukowski. Mi piace anche citare Asimov, perché sono appassionato di fantascienza.
La scrittura invece è nata una decina di anni fa, oserei dire per caso. Nata sui social. Mi hanno iscritto in un gruppo “Scrivi un romanzo in dieci parole”, ho cominciato a scrivere delle cose e mi piaceva molto. Col tempo le dieci parole sono diventate di più scoprendo che mi veniva quasi naturale. Poi la sorpresa di essere notato da Enrico Nascimbeni e quindi la prima pubblicazione in una collana da lui curata. Probabilmente la mia poesia navigava sottotraccia e improvvisamente è venuta fuori. Il mio professore di filosofia del liceo ha scritto di me: “La prima volta l’ho conosciuto quando di anni ne aveva sedici. La sua vita, come la nostra, ha attraversato montagne russe e acquitrini melmosi. Ma in un cantuccio della memoria la sua mente continuava a coltivare, stilemi, lexemi, baci di vocali, jazzistici incontri di vocali e consonanti”.
Quanto tempo hai impiegato per raccogliere i versi di questa raccolta?
Per scrivere ho solo bisogno di vivere, di curiosare, di conoscere, di dialogare e confrontarmi. Sono questi gli irrinunciabili generatori di emozioni, anche perché non ho una formazione poetica o letteraria essendo i miei studi, liceali e universitari, scientifici. Ritengo, piuttosto, di essere fortunato per aver ricevuto il dono di riuscire a trasfondere le emozioni nelle parole, almeno così dicono. In realtà non c’è un tempo definito. Questi versi vanno dal 2017 (anno di pubblicazione del mio secondo libro) a oggi se ci riferiamo alla loro scrittura. Tecnicamente invece per diventare libro diciamo che c’è stato un lavoro di quasi un anno insieme all’editore visto che le poesie scritte sono molte di più, per scegliere quali e per la loro rappresentazione grafica. Il mio scrivere poesie non ha l’obiettivo libro, anche se poi in un certo momento nasce l’esigenza libro e l’esigenza di una omogena rappresentazione di tutte quelle parole buttate su fogli.
Già dal titolo della raccolta emerge potentemente una parola che è anche un simbolo: desiderio. Che cos’è per te, come uomo e come autore?
Spesso “desiderio” viene associato a “mancanza” e in effetti se si va a guardare l’etimologia della parola che viene dal latino “assenza di stelle” potrebbe anche essere. Io invece auspicherei di considerarla in maniera diversa, non una mancanza ma una presenza spesso immaginaria a cui fare riferimento per seguire una strada, una stella che ci indichi il cammino. Mille e poi ancora mille possono essere le forme assunte dal desiderio durante la nostra vita. Uno sprone ad andare avanti, a perseguire i sogni. Credo non ci siano differenze tra uomo e autore, il desiderio è uno dei casi in cui l’intento di entrambi tende a coincidere e a perseguire lo stesso scopo nel senso lato del termine, il primo magari in silenzio mentre il secondo con le parole. Aggiungerei che il desiderio è una astrazione, e non deve mai diventare voglia di possesso, perché diventa compulsione ed è altra cosa. In una poesia passata l’incipit recita “Non voglio possederti, perché se ti possedessi potrei perderti, e questo sarebbe insopportabile”. Questo sarebbe la perdita del desiderio e quindi del vivere.
In una poesia, A morte, scrivi tra l’altro: Uccidete i poeti/sono solo uomini fatti di parole. La parola poetica può essere una colpa per la nostra società?
Non casualmente parlo di uccisione del poeta/uomo e non della poesia. No, la parola poetica non può essere una colpa, infatti non viene mai additata la poesia, ma il poeta, chi prova a diffonderla. Dico sempre: “Che poi a scrivere poesia che ci vuole, prendi le parole e le metti in fila, senza nessuna colpa. Poi ognuno ci troverà la colpa che vuole”. Le parole non hanno mai colpe, è l’uso delle parole che è colpevole in senso positivo o negativo, ma comunque colpevole. Aggiungerei che uccidere i poeti è un simbolismo nel quale mi rifugio per ricordare la trascendenza dell’essere umano che richiede la libertà e la capacità di vedere oltre l’urgenza immediata, e spesso egocentrica, contrapposta a un vuoto interiore che spesso si cerca di riempire con le parole, che non muoiono mai.
Mi sembra che scegli per i tuoi versi parole di uso quotidiano, quindi non ricerchi parole singolari, termini rari?
Gesualdo Bufalino ne Il Malpensante scriveva: “Scrivo poesie che si capiscono, devo sembrare un cavernicolo”. In realtà non mi sono mai posto il problema, qualche “termine raro” capita anche a me di usarlo, ma solo perché funzionale al testo, e non per arricchirlo. Sono per una poesia diretta, senza fronzoli, non lunga e che arrivi al dunque senza orpelli, in cui l’immagine racconti in maniera immediata l’emozione. Questo non vuol dire che sia la maniera corretta, ma credo dopo anni a me la più congeniale. Sarà un mio limite, ma ho due condizioni per la poesia, non devo girare foglio per finire di leggerla e non devo avere vicino il vocabolario. Probabilmente il mio lessico è scarno e a corto di parole edulcorate, ma è il mio modo per arrivare al lettore. Una presunzione la mia.
Come lavori per scrivere una poesia?
Spesso mi chiedo se siamo noi a scrivere le poesie o siano le poesie a scrivere noi. Credo che la poesia sia già dentro di noi, dentro tutti noi, poi per alcuni accade la magia dello scrivere, del riuscire a esternare. Qualche tempo fa scrissi che il poeta “racconta di noi senza avarizia, non concedendo alibi alla vita” . Ecco, direi che il poeta ha la fortuna di riuscire a tirare fuori i versi nascosti dentro, sconoscendo l’avarizia nella generosità del dare e, senza concedere, ma soprattutto senza concedersi alibi; la poesia è un regalo che la vita ci concede, che ci prende per mano, e ci accompagna nel nostro viaggio, una trasparenza di emozioni che avvolge le parole. Non c’è un vero e proprio lavoro, block-notes e una penna in tasca sono una cosa irrinunciabile, quasi come acqua nel deserto della quale non si può fare a meno. È più forte di me, quando balena un pensiero o vedo o sento qualcosa che mi suggerisce, allora devo metterlo nero su bianco, buttarlo lì senza stare a pensarci, senza nessuna elaborazione, e magari resta lì per mesi, poi in un attimo la scintilla. Nascono così le mie poesie, poche correzioni e qualche limatura. Senza nessuna ansia.
Più di una volta isoli in un verso solo una “e”, qual è il peso che dai a questa lettera/parola?
Mi ha incuriosito, e sono andato a guardare questo mio uso della “e” inconsapevole, cercando di farlo diventare consapevole. È un taglio netto nei versi a sottolineare la contiguità e sovrapposizione contemporanea di due immagini, a volte tre. Un modo per rafforzare la sequenza. Ma è anche un modo per indugiare sui versi precedenti, preparandosi alla lettura di quelli successivi. Un momento di pausa per chiedersi dove sto andando e da dove sono arrivato. Indubbiamente un grande peso nella mia scrittura, immagino anche dovuta a un momento di pausa di riflessione nella stesura definitiva della poesia. Un accodamento che dà lo stesso valore e la stessa dignità ai versi precedenti e successivi anche se separati da una sola “e”.
Una parola che torna spesso è “culo”, che spazio ha il sesso nella tua ispirazione?
Premesso che viene ripetuto solo quattro volte, non vorrei si pensasse troppo male (sorrido) anche se il sesso di primo acchito può sembrare l’ispirazione predominante, in realtà lo è, si trasforma sempre in qualcosa di etereo e irraggiungibile. In una dico “fu un illecito/quel tuo culo,/non feci in tempo/a non guardarlo/e mi fottesti.” In un’altra “giudicando affrettatamente/dimenticò/la lode al culo/perdendo l’occasione”. Il “culo” e non c’è altro modo di dirlo, di usare altra parola che non sia questa, è dematerializzato, non è puro sesso. Nell’eccezione più comune forse sì, per me è solo una delle forme che può assumere il desiderio. Mi viene da pensare al desiderio di bellezza, e proprio la bellezza mi riconduce alla sezione aurea, a quella spirale meravigliosa che ritroviamo in qualunque cosa sprigioni bellezza, e a cui Fibonacci diede un nome, no, non lo chiamò “culo” ma “serie aurea”. Tutte le “forme” che attraggono, siano esse concrete o visioni, tutte (o quasi) ricadono dentro la sezione aurea, la perfezione, ma è la perfezione che percepisce il nostro occhio, la nostra mente, siamo sempre alla ricerca delle bellezza che deve essere inaccessibile altrimenti cessa il desiderio. E comunque il sesso e l’attrazione hanno sempre un loro perché soprattutto quando i versi diventano carnali, e la passione incute quel timore reverenziale a cui non riusciamo mai a sottrarci. Infatti non a caso ho scritto anche: “quel culo/– visto da qui –/una distrazione di certe notti”.
L’ultima lirica della raccolta comincia così: “Dal ruolo di poeta/mi affranco,/sarebbe barare”. Cosa vuol dire per te il ruolo di essere poeta?
L’ultima lirica è un saluto, un arrivederci. Vi saluto e adesso da poeta torno a essere l’uomo. Non so se essere poeta è un ruolo, di sicuro so soltanto che quando le parole finiscono su un foglio di carta cominciano a pesare, di qualunque tipo siano. Il ruolo del poeta, se un ruolo c’è, come per chiunque scriva, credo sia quello di dire la verità, senza sotterfugi, chiara e pulita, spiattellata lì, forse per il poeta ancor di più. Il “dono” della sintesi dovrebbe aiutare anche a denunciare, ribellarsi, e questo credo che avvenga magari dietro maschere che non smettiamo mai di indossare. Ognuno ha la sua maschera, il poeta ne indossa sicuramente una, e così anche ogni lettore. Una bellezza i lettori, perché ti fanno scoprire cose che non pensavi di aver mai scritto. Chiudo, non prima di averti ringraziato, con dei versi citati da Salvatore Basile nella prefazione:
… oggi la parola si allunga
nell’ora della tristezza
e adesso ognuno al suo posto,
io resto qui, mi sistemo la maschera
tra scena e orchestra,
e adesso musica.
Paolo Restuccia
Il link all’intervista su Storygenius: https://tinyurl.com/fbtum3fr