“Caribe” su SoloLibri
Caribe di Fernando Velázquez Medina
Arkadia Editore, 2020 – Da un irresistibile scrittore cubano, il primo romanzo di una trilogia. Le scorribande di un caraibico mezzosangue, corsaro e ribelle, per mari, deserti e isole esotiche e nordiche, nella seconda metà del 1500.
Uberto Eco, monaco, uomo di mondo e mentore di giovani promesse: un omaggio del cubano Fernando Velázquez Medina al filologo italiano, autore de Il nome della rosa e non solo, che dice mai premiato con il Nobel per la cultura mentre altri lo hanno ricevuto non per le lettere ma per le canzoni e l’hanno pure snobbato. Non nasconde un cenno critico a Bob Dylan lo scrittore, polemista, america-latinista, firma brillante e impertinente del romanzo Caribe, pubblicato ad aprile dell’anno scorso da Arkadia Editore di Cagliari (collana Xaimaca Jarama, 294 pagine), nella buona traduzione di Riccardo Ferrazzi e Marino Magliani. Frate Uberto Eco di Alessandria è l’educatore del protagonista, un meticcio cubano che conosciamo prima anziano e dopo ritroviamo tredicenne, in una vita ch’è tutta un’avventura, picaresca e corsaresca, opera del letterato emigrato negli Stati Uniti, anche critico cinematografico. Settant’anni non sembrano pesargli: Medina non riesce a tenere a freno la sua penna caustica ma elegante. Il romanzo è pieno di echi di provenienza diversa, dai classici d’ogni tempo ai film, all’architettura maya. La vita di Dieguito – raccontata da Don Valdes, Diego anziano – è l’antiracconto della storia dei Caraibi, propinatoci a uso e consumo del mondo anglosassone. Nato all’Avana nel 1550, un secolo e mezzo dopo l’approdo dell’ammiraglio Colom, il giovane non ha studiato eppure impara dalle sue esperienze. Girare il mondo lo rende un guerriero, un leader. In Europa diventa il patriarca Valdes. In avvio, rivela in perfetto olandese a un capitano dei Paesi Bassi – il Don parla cinque lingue, anzi sette se si aggiungono l’indio dei cannibali e il latino – d’essere stato catturato giovane da certi corsari europei e di avere navigato con loro in oceani e mari, toccando l’Africa, le Fiandre e le Isole del lontano Nord come l’Islanda, a caccia di grandi cetacei. Si sottrae alla richiesta dell’interlocutore di rivelare particolari su come sia stato catturato dai corsari e come abbia fatto a liberarsi. Non avrebbe creduto di certo nell’apprendere dei luoghi che aveva conosciuto. Ma raccontare ha rimesso in movimento i suoi ricordi. E comincia a scriverli. Ha navigato in mari tanto caldi da ribollire sotto il sole dei Tropici o tanto gelati da spegnere un uomo in non più di due minuti se ci fosse caduto dentro. E deserti, tempeste mostruose. E poi preziosi e ricchezze senza uguali e senza fine. Ha visto gente di razze diverse e di costumi vari, anche contrastanti, animali favolosi. Ha conosciute sapienze più profonde di quelle apprezzate in Europa. Il mondo è più strano di di quanto pensiamo e molto più di quanto potremmo pensare, diceva bene l’amico Bill, il commediografo inglese. El mar de los canibales: il titolo originale del romanzo evoca l’esotismo dello scenario del racconto. Diego è nato a San Cristobal de la Havana, nella Baia di L’Avana, da un indio maya e una mulatta, a sua volta generata da una donna di colore e da un hidalgo castigliano. Nonostante il colorito olivastro, viene considerato un uomo libero e la sua famiglia è rispettata. La mamma gestisce un’osteria e lui è uno dei pochi a saper leggere. Divora i classici di tutti i tempi che frati, ufficiali e notabili in transito lasciano in cambio di cibo e bevande. Un suo padrino è un alfiere, un ufficiale molto considerato a Cuba e l’appartenenza dell’uomo alla Fratellanza Militare sarà decisiva per sottrarre il ragazzino all’Inquisizione, che gli avrebbe fatto fare una misera fine, per uno strano pasticcio in cui era del tutto innocente. Lo avvia altrove, affidandolo al capace e non osservante frate Uberto, che appartiene a un ordine sconosciuto ed è il maestro giusto per impartire una formazione arricchita da una mescolanza delle migliori conoscenze e virtù. Si diceva della polemica dell’autore nei confronti della storia raccontata a uso e consumo dei vincitori. Fernando la rovescia totalmente. Don Valdes riflette sui decreti reali che dal cuore della Spagna trasformano in contrabbando commerci altrove leciti. E chi li conduce diventa un fuorilegge. Sulla popolazione caraibica e sui traffici di tutto l’impero gravano dazi asfissianti, che arricchiscono la Corona e i mercanti della Casa della Contractation di Siviglia, con i suoi soci, nobili e clero. Per gli indigeni e i sudditi più coraggiosi, il contrabbando è una necessità, pur di vendere i prodotti a un prezzo vantaggioso. Essere clandestini, sfidare le Corti di giustizia e gli inquisitori vuol dire sentirsi liberi, al diavolo la forca e il rogo. Chi acquista la loro merce sono luterani, calvinisti, ugonotti e inglesi antipapisti, tutti “eretici”. In questo modo, diventano due volte eversivi, ribelli tanto nei confronti del governo spagnolo che dei precetti della Chiesa cattolica e apostolica. Sfuggendo alla ragazza che aveva causato la sua rovina, a tanti pericoli, ai cani che lo braccano, Diego incontra soldati vestiti in un modo mai visto e con vessilli mai incontrati. Sono inglesi e l’uomo che gli si avvicina, protetto da un gruppo di ufficiali soldati e marinai. Abbigliato molto distintamente, con barba e baffi ben curati e un berretto di pelle, è sir Francis Drake, il corsaro al servizio della regina d’Inghilterra Elisabetta I. Caribe è il primo romanzo di una trilogia.
Felice Laudadio
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